mercoledì 17 settembre 2014

SPECIALE 2

Jack Hurt: Le Terre dell'Autunno (Due di Tre)

[di Stefano Mazzoni]




II. Dom-Daniel

"In questo mondo ci sono due strade" disse Hurt a Daniel, il suo famiglio. "La strada del re, che stiamo percorrendo, è la strada del maschio, lo scorcio di Sole in un mondo lunare. L'altra è la strada della regina, la via della donna, ma a noi non è concesso percorrerla".
Daniel abbaiò in segno d'approvazione, ma dentro di sé si sentiva abbattuto. Ai suoi occhi la strada, maschile o femminile che fosse, pareva comunque troppo lunga, anche perché fino a quel momento non ne avevano percorso che una minima parte. "Mi vuoi dire il tuo piano, adesso?" chiese, pur non aspettandosi nulla dal detective. 
"Tra poco" rispose il detective. "Per ora sappi che sei il mio uomo-chiave".
"Be', era proprio ora che tu te ne rendessi conto".
La pianura su cui correva il sentiero era tagliata in due da un fiumiciattolo. La strada del re lo intersecava per il largo, e una stretta passerella di legno collegava tra loro le due sponde. Un uomo imponente stava in piedi su di essa: indossava pesanti abiti di pelliccia e un mezzo elmo vichingo, e nelle mani reggeva una coppia di bastoni. Pareva addormentato; tuttavia, appena i due gli furono vicini, spalancò gli occhi e iniziò a studiarli con aria bonaria.
"Voi che volete attraversare il guado" li avvertì, con una voce che pareva quella di un terremoto o di un qualche altro spiacevole fenomeno naturale. "Sappiate che per farlo dovrete prima sconfiggermi".
Hurt sospirò stancamente e si massaggiò le tempie. Era già il secondo fatato che voleva sbarrargli il passo, quel giorno. "E com'è che ti chiamano, guardiano del guado?" chiese.
"Little John" disse lui, raggiante. "E finché il mio signore Robin non dirà diversamente, io rimango a difendere il ponte".
Daniel guardò critico il letto del fiume, che era quasi inaridito. "Possiamo passarci attraverso" osservò. "Non sarà difficile".
"Potremmo farlo" ammise Hurt. "Ma non senza lasciare il sentiero". Ci rifletté un attimo, si rivolse al gigante e: "Accettiamo la sfida" rispose, con un'alzata di spalle.
Little John annuì cupo e lanciò a riva un'asta, invitando Hurt a prenderla al volo. Ma il detective si scansò e l'asta cadde a terra, rotolando fino ai suoi piedi.
"Mmh..." commentò. "Proviamo così invece". Con un unico movimento della mano estrasse il pacchetto di foglie che aveva portato dal mondo degli umani e lo puntò contro il gigante. Partì un colpo che centrò Little John in mezzo al petto. Subito Daniel si lanciò sul ponte e gli si mise tra le gambe; così sbilanciato, il gigante non poté fare altro che cadere a testa in giù nel ruscello.
Le foglie d'acero, in parte bruciate, planarono giù rivelando il loro contenuto. Hurt aveva portato a Faerie la sua Smith&Wesson.
Il detective si massaggiò la mano, appena indolenzita dal vigore del rinculo. Daniel si trovava già sull'altra riva e berciando invitò Hurt a seguirlo. Passando per il ponte il detective gettò un'occhiata a Little John, che stava seduto in modo che le acque gli lambissero le natiche. Quando i loro sguardi si incrociarono il gigante scoppiò a ridere e lo salutò con la mano.

Il detective era arrivato in vista della fortezza di Dom-Daniel, la roccaforte di Oberon Re delle Fate. L'ombra delle sue torri si stendeva per molte miglia tutt'attorno al castello. Il maschio era alto, con spesse mura color della terra bruciata.
Daniel era rimasto indietro, sulla strada del re. Hurt gli aveva illustrato il suo piano, spiegandogli anche perché in quel momento non poteva accompagnarlo.
"E allora cosa supponi io debba fare, nel frattempo?" aveva obiettato il cane.
"Non lo so". Hurt si era stretto nelle spalle. "Quello che vuoi. Ma non mangiare nulla di quello che trovi in giro. E soprattutto non dire sciocchezze" lo avvertì.
"Mi devi aver preso per qualcun altro".
Nella garitta sopraelevata stava riposando un soldato. Appena vide Hurt scattò in piedi, sbattendo la testa contro il soffitto; fece un salto di qualche metro e gli venne incontro. Era alto almeno quanto un uomo, quanto Hurt cioè; tuttavia il detective sapeva che, a dispetto delle apparenze, era molto più forte del gigante del guado. Non sarebbero bastate tutte le pallottole di questo mondo per smuoverlo, perché i suoi poteri derivavano da Oberon in persona, che era signore di quei luoghi.
La guardia indossava un busto di bronzo sopra un usbergo dello stesso materiale, e braghe larghe da saltimbanco. In mano stringeva una picca di frassino con la punta di ferro. La cosa più sorprendente di lui era però il volto: sotto un elmo a punta faceva infatti capolino il bulbo di un tulipano. Quando gli si fu avvicinato abbastanza studiò il detective con espressione annoiata - o almeno così pareva, a sforzarsi un po’ con l’immaginazione.
"Salute, soldato" esordì Hurt, alzando la mano. "Sono qui per vedere Oberon, signore di Dom-Daniel e di Avalon". Piegò la testa e gli sorrise, cercando di sembrare un tipo simpatico.
Il tulipano emise un rumore che pareva uno sbadiglio. "Mi spiace, ma non credo di poterti lasciar passare" disse, scuotendo la testa. Continuò a fissarlo con espressione assonnata, come se l'unica cosa che desiderasse fosse di tornare nella sua cabina.
Il detective accentuò ancora di più il suo sorriso e con la destra fece cenno al soldato di attendere. Si infilò una mano in tasca ed estrasse un pacchettino di carta ripiegata; se lo pose sul palmo, poi, delicatamente, lo aprì. Conteneva una ciocca di capelli rossi.
"Ho con me il talismano delle streghe d'Irlanda" spiegò il detective.
Il soldato osservò con relativo interesse i capelli, arricciò un petalo e parve dar loro un'annusatina. Infine: "Allora puoi entrare" concesse, dando le spalle ad Hurt e incamminandosi verso la guardiola. Appoggiò la picca al muro e si protese cercando di raggiungerla, ma, non riuscendoci, cominciò a saltare su una gamba sola. "Le porte si apriranno per te".
Hurt gli rivolse un cenno di ringraziamento e si avvicinò ai cancelli d'argento
"Re Oberon non c'è in questo momento" lo avvisò la guardia. "Sta conducendo una Caccia Selvaggia. Quindi stai attento a non lasciare il corridoio e a non entrare in nessuna delle stanze, almeno finché Sua Altezza non torna. Qualcuno passerà a farti compagnia".
Il detective annuì, collaborativo, si risistemò il talismano in tasca e fece il suo ingresso nella fortezza.

Avanzò nel palazzo a passo incerto, sospettoso di ogni angolo, di ogni passaggio, di ogni porta. Non poteva immaginare quali pericoli lo attendessero, e questa novità lo metteva alquanto a disagio.
Qualcosa si mosse alle sue spalle. Qualcosa che non si preoccupava di far silenzio. Il detective si portò una mano al calcio della pistola, cercando di concentrarsi su quel rumore.
"Così tu sei un uomo" constatò la cosa. "Quando me l'hanno detto non volevo crederci".
Hurt si voltò, ma non poté completare il movimento che la creatura gli era già sgusciata alle spalle.
"E cosa ci fai qui, messer umano?"
Hurt rimase fermo, teso, con le pupille girate nel tentativo di catturare i suoi movimenti.
"Vorrei parlare con Oberon" disse, temendo di apparire scortese se fosse rimasto in silenzio. La scortesia non è tollerata, a Faerie. "Avrei un affare da proporgli".
"Un affare... a Oberon delle Fate?" Il suo ospite scoppiò a ridere, una risata sguaiata e a pieni polmoni, come se non ci fosse stato nulla al mondo di più divertente. Il detective approfittò della sua distrazione per girarsi e sorprenderlo.
L'elfo che gli avevano mandato era basso, magro, ma tutto muscoli. Aveva la pelle verde e due lunghe orecchie pelose, e le mani ugualmente irsute. Indossava un farsetto viola e un cappello da notte e nient'altro. Dal tanto ridere stava piegato in due e si teneva la pancia.
"Come sono sciocchi questi mortali!" riuscì a balbettare tra le lacrime.
Hurt, vedendolo, si rilassò, e decise di attendere che le risate cessassero prima di presentarsi. Tuttavia, dato che dopo molti minuti l'elfo non dava ancora segno di voler smettere, optò per fermarle lui stesso. Si schiarì la gola e cercò di sovrastare il rumore che faceva lui. "O i miei occhi m'ingannano o tu, forma e tratto, sei quel folletto birbante che tutti chiamano Robin Goodfellow" recitò, come un bravo attore.
La creatura di colpo smise di ridere. La sua espressione era gelida come se fino ad allora avesse fatto finta, e guardò il detective con occhi iniettati di sangue. "Son proprio io quell'allegro nottambulo. Dovrei dire così, mi pare". Si sfilò il cappello e si inchinò, ma si capiva che lo stava ancora prendendo in giro.
Hurt gli sorrise, augurandosi che quello del folletto fosse solo un modo come un altro per fare amicizia. "Ho incontrato un tuo compagno al guado" disse, tanto per dire qualcosa.
"Il vecchio John?" chiese Puck con indifferenza. "Spero tu non gli abbia fatto troppo male, quando sei passato".
"Dovresti dirgli che può smettere di fare la guardia" rispose Hurt, per rimanere sul vago.
"Dovrei?" Le labbra di Puck si arricciarono fino a scomparire, lasciando scoperti i denti piccoli e numerosi da squalo. "Forse hai ragione, messer umano. Ma a volte dimentico quali sono i miei doveri". Si voltò di scatto, indicando il corridoio tutto curve dietro di lui. "Cammina con me" lo invitò.
I due non superarono alcuna porta né svoltarono, ma dopo una cinquantina di passi si trovarono su un camminamento chiuso che dava sull'esterno, come una lunga veranda costellata da trifore. Hurt dette un'occhiata al cortile e con stupore si rese conto che dovevano trovarsi al secondo piano.
"Qui capita che i percorsi si annoino, e ogni tanto si spostino" spiegò Puck con un'alzata di spalle.
Il detective serrò la mandibola, per niente a suo agio in quell'ambiente, ma non rispose. "Tu sei uno dei... cortigiani di Oberon?"
Il folletto saltellò e gonfiò il petto, pieno d'orgoglio. "Il migliore" disse. "Io sono il suo giullare e il suo consigliere. Lo faccio ridere quando dovrebbe star serio e lo rattristo quando vorrebbe un po' d'allegria".
Puck stava per aggiungere qualche altra impresa, ma in quel momento la loro conversazione venne interrotta da un nitrito che proveniva dal cortile. Il folletto saltò, si appese al davanzale della finestra più vicina e si sporse verso il giardino. Anche Hurt si avvicinò alla finestra e guardò in basso.
Un cavaliere si era fermato a ridosso delle mura, splendido in un'armatura d'argento con rifiniture d'oro. Al fianco indossava un cinturone a cui era assicurata una spada, e in testa portava un grande elmo bicornuto, con piccole feritoie per gli occhi. Il destriero su cui cavalcava era nero, con la criniera di fumo grigio, ed era bardato con una semplice gualdrappa senza sella.
Il cavaliere scese dallo stallone e gli dette una pacca sulla schiena. L'animale trottò via, senza dubbio diretto alle stalle. Hurt non si sarebbe sorpreso neppure a vederlo servirsi la biada da solo. Il cavaliere si sfilò l'elmo e se lo mise sottobraccio: da quella distanza, il detective poté vedere solo lunghi capelli biondi e la sottile barba che correva a incorniciargli il volto.
"Mio re!" urlò Puck sguaiatamente.
Oberon sollevò lo sguardo verso di lui.
"C'è qui un mortale che chiede di te!"
"Eccoci" rispose il sovrano.
La voce non proveniva dal giardino, ma dalle loro spalle. Hurt sobbalzò e si voltò di scatto, pronto a estrarre la pistola. Ma quando vide il re gettò una fugace occhiata al cortile. Alla sua destra sentì il folletto reprimere una risata.
Oberon era alto, molto più alto di chiunque Hurt avesse mai visto in vita sua. Le sue dita erano lunghe, affusolate, cariche di anelli... Le dita di un re. Eppure le unghie vi crescevano incontrollate, ricurve e appuntite, come quelle di una strega. Dimostrava all'incirca trent'anni, ma Hurt sapeva che era poco meno vecchio della Legge e della Sorellanza stessa. Del resto i fatati sono un popolo di mutaforma: chi poteva dire come sarebbe apparso da lì a qualche ora?
"Queste faccende ci annoiano" si lamentò Oberon con un accento baritonale. A sentire la sua voce, Hurt sussultò una seconda volta. La modulava e ogni volta sembrava cantasse. Dondolò sulle punte e si morse le labbra. "Mio Puck, manda via questo scocciatore e portaci una caraffa di falerno".
Il folletto si inchinò. "Se questo è il volere di Sua Maestà..."
Il detective si tastò frenetico la giacca. "Un momento! Ho qui il talismano delle streghe d'Irlanda". Estrasse la ciocca di capelli che aveva rubato a Myriam. "Questo mi dà diritto a ricevere udienza, vero?"
Oberon sollevò le folte sopracciglia bionde. "Il talismano è stato ottenuto con l'inganno o ceduto spontaneamente?" chiese.
"Fa qualche differenza?"
"Non più, ormai". Il re sventolò teatralmente una mano, quindi "Supponiamo di doverti ascoltare" concesse. "Faremo le cose per bene, allora. Nella sala delle udienze".

La sala era una camera lunga e spoglia dal soffitto altissimo. Hurt calcolò che ci sarebbero potute entrare trecento fate e starci comode. Pesanti drappeggi blu coi ricami degli stemmi di Faerie pendevano dalle finestre, impedendo al Sole di far capolino nella stanza; eppure, come ogni altra cosa lì, ogni parete sembrava riflettere una qualche misteriosa fonte di luce.
Seguendo il tappeto rosso steso a terra, Oberon si diresse al trono. Aveva uno schienale alto, foderato di velluto rosso, ed era coperto di morbidi cuscini di broccato. Si trovava su un palco all'altra estremità della sala.
"Maestà" esordì Hurt. "Alcuni dicono che Dom-Daniel sia una caverna sotto il mondo, in cui gli stregoni si riuniscono per celebrare i loro rituali... Eppure, sul mio onore, queste sono le stanze più belle che io abbia mai visto".
"Come dire che viaggiano sul dorso di un asino" disse il re, ma sembrò lo stesso compiaciuto. "Dicci in fretta perché sei qui e liberaci della tua presenza". Il sovrano coprì i tre gradini che lo separavano dal trono, si voltò e parve abbracciare tutta la sala con il suo sguardo.
"Quanti sudditi ha il mio sire?" chiese Hurt, cercando di parlare con lingua di miele, come scritto sui libri. Le fate non tollerano chi non è più che cordiale, si ripeté.
"Innumerevoli". Il re lo fissava, chiedendosi dove avrebbe voluto arrivare.
"E quanti sarebbero pronti a prendere le armi contro di te?"
Il sovrano aggrottò le sopracciglia, ma non parve preoccuparsi più del necessario. "Quasi tutti, se ne avessero la possibilità. Comunque non mi risulta che ci stiano provando in questo preciso momento".
"Con tutto il rispetto", disse Hurt, "qualcuno che ci prova c'è".
Oberon posò il cimiero sul treppiede accanto al trono e si lasciò sprofondare tra i cuscini di broccato. Parve soppesare attentamente quelle parole. Si sporse sullo scranno, poggiando un gomito sulla coscia e indicando con il braccio libero il petto di Hurt, invitandolo a proseguire.
"Ci sono fatati che non hanno ancora prestato giuramento a Oberon" osservò Hurt con una punta di malizia.
"Poche e sparute terre".
"Io non direi così". Il detective, come a sottolineare le sue parole, si mise a contare sulle dita. "Tir Tainigre, la valle che il Re Pallido ha conquistato al Drago; il Giardino della Dama Grigia, col suo esercito di mocciosi..." Sollevò gli occhi a incontrare quelli di Oberon, che erano azzurri come il cielo d'Irlanda e che per un attimo gli dettero una sensazione di vertigine. "...e il Nidavellir" concluse in tono grave.
Oberon si carezzò la guancia con l'unghia dell'indice e di nuovo inarcò un sopracciglio. Era un gesto molto d’effetto, e sicuramente doveva farlo spesso. "Hreidmar, intendi?"
Hurt annuì. "So per certo che sta ammassando elfi scuri e nani nei palazzi che si è comprato con l'oro di Andvari. Vuole marciare su Dom-Daniel e sulle Terre dell'Autunno, dove l'aria è tiepida e il raccolto è continuo... Dicono si sia stancato dei ghiacci eterni".
Re Oberon scattò in piedi, sporgendosi sulla punta dei piedi come una ballerina e inarcando la schiena, facendo scricchiolare tutta la sua bella armatura. "E tutto questo tu come lo sai, mortale?"
"Nel mio mondo sono un mercenario" spiegò Hurt. "Nel mio ultimo lavoro ho avuto a che fare con uno gnomo del Nidavellir. Mi ha offerto molte cose in cambio della libertà, ma la più interessante di tutte è stata quest'informazione".
Oberon annuì, piano. "Se quello che dici è vero" si chiese, passandosi una mano tra i capelli e l'altra sul pizzetto, "comunque non ti riguarda. Perché sei venuto a comunicarcelo?"
"Perché ho la soluzione ai tuoi problemi" disse.
"Sul serio?"
"Sul serio".
"E cosa ti aspetteresti da Dom-Daniel in cambio del tuo aiuto?"
Se possibile il sorriso di Hurt si fece ancora più esitante, e il suo dente d'oro scintillò alla luce magica del castello. "Solo protezione".
"E tu...?" Il sovrano sventolò una mano in direzione del detective.
"Mi impegno a parlamentare con Hreidmar. Gli farò ritirare le truppe. Questa guerra finirà prima ancora di iniziare".
Oberon si grattò il mento, scettico. Però, dopo un attimo "Sia!" decise. "Quantomeno sarà divertente vedere che ci provi".
Hurt si piegò in un breve inchino. Metà del suo piano aveva già avuto successo. "Ora cosa hai intenzione di fare?" chiese al re.
Oberon era sceso dagli scalini e si stava dirigendo verso le porte della sala; ma si fermò e fece una piroetta per tornare a guardare il detective. "Chiameremo a raccolta i vessilli di guerra" rispose. "Solo… nell’improbabile caso che tu fallissi".
"Improbabile" si sentì di sottolineare Hurt.
"Nuada e le tribù del corvo e il Duca della Menzogna, quel grosso rospo" continuò il re. "E magari anche le truppe della nostra dolce mogliettina".
"Sarà senza dubbio felice di aiutarti".
"Come di baciare un somaro" gli confermò il re. Poi si fermò e parve riflettere. "A tal proposito" continuò, "potremmo raccontarti certe storie..."
"A guerra conclusa, maestà" gli assicurò Hurt. "A guerra conclusa".


III. Il Nidavellir

Hurt entrò nella Sala Grande del castello che si ergeva nel Nidavellir. I sei ampi camini della stanza erano accesi per scaldare le pareti di pietra e gli alti soffitti a sesto acuto. Per il lungo della sala erano disposte cinque tavolate su cui gli elfi e i nani si stavano gustando le portate di cinghiale e birra.
Le guardie alla porta abbassarono le asce bipenne e gli sbarrarono il cammino. Una lama gli sfiorò il collo, premette e una goccia di sangue le scivolò lungo il filo. Hurt non disse una parola, ma si portò il palmo della mano a massaggiarsi il taglio.
Dall'altra parte della stanza Hreidmar stava seduto sul suo trono, intento a divorare un cosciotto e lasciando che il grasso gli colasse sulla barba. Accanto a lui un'elfa scura dalle lunghe basette reggeva il suo boccale. Quando si accorse dell'ospite, il re gettò il cosciotto ai lupi e si alzò per guardarlo meglio.
Era alto per essere un nano, pensò Hurt, ma troppo basso per essere un elfo. Aveva una lunga barba rossiccia che gli arrivava fino al petto, e indossava una tunica di lana grezza al cui centro era ricamata una runa di protezione, un triangolo rosso circondato dai viticci.
Il re fece cenno alle guardie che lo portassero da lui. Il rumore dei piatti, dei boccali sollevati e delle risa cessarono non appena Hurt venne fatto inginocchiare davanti al trono.
"Chi sei?" chiese il re con voce rude. "E come hai fatto ad arrivare qui?"
Hurt si rialzò ed estrasse la pistola. Una delle guardie fece per scattare, ma il detective la teneva per la canna, non per il calcio.
"Ho ucciso le tue guardie. Io porto il bastone del tuono" disse, piegando la testa per osservare la reazione della sala.
"Ah" commentò Hreidmar, per nulla impressionato. "Una Smit&Wesson di Midgard. Non male, come pistola".
"Tipico" bofonchiò Hurt, sbuffando e nascondendola sotto la giacca.
"Non mi hai ancora detto perché sei venuto a disturbarci" insistette il re. Qualcuno, da qualche parte nel fondo della sala, urlò: "Tagliagli la testa e poi chiedilo a lei!" Tutti risero.
Hredimar scrutò nella stanza per vedere chi avesse parlato, poi riportò lo sguardo su Hurt e sollevò un sopracciglio. "Quell'elfo non ha tutti i torti" disse. "Le teste si mostrano più cedevoli quando non sono attaccate al loro corpo".
Hurt deglutì, sentendo un formicolio alla base del collo ma imponendosi di non allentarsi la camicia. Per un attimo si pentì di essere venuto fin lì. Ma, si disse, era inutile piangere sul demone evocato. "Io..." cominciò, cercando le parole adatte. "Io sono un mago".
"Un mago?" Hreidmar volse il capo per tutta la lunghezza della sala. "Un manipolatore del Fato?" La camera si riempì di risate a stento soffocate. "Be', qui sei in presenza dei Signori del Fato, piccolo mortale" gli disse, con espressione severa, guardandolo dall'alto in basso. "E i venti della nostra magia sono più grezzi e forti della tua".
Hurt incassò il colpo e accennò un mezzo inchino. "Tuttavia anche voi sottostate alla Legge e alla Sorellanza" osservò.
Il re socchiuse gli occhi ed emise un suono irritato, soffiando dalle narici. "Sì" ammise, "anche se noi le chiamiamo le Tre Streghe o le Sorelle del Wyrd... e non siamo contenti di dover loro obbedienza".
"I fatati non sono fatti per l'obbedienza" concordò il detective. "Tuttavia seguite i vostri re".
Un elfo allampanato, con lunghi capelli unti, si alzò dal centro della tavola di mezzo levando un boccale verso il trono. "Solo quelli che ci scegliamo!" urlò, rovesciando un po' di birra sul suo vicino. All'osservazione fece seguito uno scroscio di applausi.
Hurt si guardò pazientemente attorno, attendendo che il rumore cessasse. "Anche re Oberon?" chiese, con finta noncuranza.
Gli occhi di Hreidmer si spalancarono e il suo volto divenne rosso. Hurt capì di aver toccato il tasto giusto. "Lui non è il nostro re!" urlò. "Il Nidavellir non è tenuto all'obbedienza di nessuno!"
"Eppure..." Hurt alzò la voce in modo che tutti, nella Sala Grande, potessero sentire quello che aveva da dire. "So da fonte sicura che Oberon sta ammassando un esercito a Dom-Daniel. Una forza che userà per sottomettere chi non gli ha giurato obbedienza".
Un brusio preoccupato attraversò la sala.
"Perché dovremo fidarci di te?" chiese Hreidmar, socchiudendo un occhio.
Il detective piegò la testa e accostò le labbra. "Oberon non sta agendo in segreto. Mandate un corvo o due e potranno confermarvi quello che vi ho appena detto".
Un nano barbuto saltò su uno dei tavoli centrali, roteando sopra la testa un pesante martello da guerra. "Allora uccidiamoli tutti, quei mangiafoglie!" urlò.
Altri ancora, in preda all'entusiasmo, si alzarono e urlarono di prendere le armi e marciare contro Dom-Daniel e Avalon, ma Hreidmar alzò una mano e li riportò al silenzio.
"Se questo è vero, e non dico che lo sia... Tu perché ce lo stai dicendo?" chiese.
Il detective prese il coraggio a due mani. "Voglio combattere con voi" mentì. "Anzi, combattere per voi". Si gettò uno sguardo attorno, cercando consensi. "Se mi darete ventiquattro ore, vi farò vincere questa guerra senza colpo ferire".
Hreidmar e i suoi si scrutarono tra loro e cominciarono a sbuffare. "In cambio di... cosa?" chiese il re.
"Protezione" rispose Hurt con falsa sicurezza. "E denaro: l'oro di Andvari. I suoi anelli magici continuano a riprodursi, vero? Che un singolo forziere venga assegnato a me".
"È un prezzo onesto" ammise Hreidmar. "Ma perché dovremmo accettare la tua offerta?"
Hurt temeva quella domanda, a cui poteva dare una sola risposta. Era essenziale essere accettato da Hreidmar perché il suo piano funzionasse. Deglutì, strinse le mani a pugno, e parlò. "Mettimi alla prova" disse, appellandosi alle antiche tradizioni. "Ti dimostrerò quanto valgo".
Hreidmar aggrottò le sopracciglia e, sotto la barba rossa, accennò a un sorriso. "Credo che faremo come dici tu" disse.
Il pavimento ai piedi della pedana sembrava solido; eppure, a un cenno del re, le lastre si aprirono e precipitarono Hurt in uno scantinato. Il detective cadde su un mucchio di paglia bagnata, rotolò sul pavimento e si rimise in piedi. Si dette delle pacche sul vestito per liberarsi della paglia che gli era rimasta addosso.
"Una botola che dà su una segreta" commentò, con scarso entusiasmo. "Perché non c'è mai una botola che dia su una spiaggia?"
Sentì un rumore di catenacci che scorrevano e sollevò lo sguardo. Una grata era scivolata a chiudere il soffitto; attorno a essa Hreidmar e i suoi si accalcavano per osservarlo.
Hurt non disse nulla. Riabbassò lo sguardo, preparandosi al peggio. Quella era la prova: se l'avesse superata, secondo la Legge li avrebbe avuti tutti in pugno. Non avrebbero potuto fare altro che accettare il suo accordo.
Il detective sentì un tonfo, poi un altro; poi uno splash, come se qualcosa di enorme fosse caduto in una pozzanghera. Si passò una mano a scostarsi dal viso una ciocca di capelli e sentì la gola secca. Tuttavia non riuscì a deglutire e per liberarsi la bocca dovette sputare.
Nel circolo di luce delle torce apparvero un ventre prominente, grinzoso e grigio come la pietra, e una clava che sembrava ricavata da un tronco d'albero. Un altro paio di passi e un gigante gobbo dalle orecchie a sventola fece la sua apparizione. Una lunga coda si attorcigliava attorno alla sua gamba destra, poi si liberava e ricominciava l'operazione con l'altra.
"Qroth è un troll d'Islanda" spiegò Hreidmar. "Se ti sconfigge, ti mangerà".
"Ma se lo sconfiggo io mi è concessa un’insalata?" chiese Hurt.
Hreidmar sorrise e non aggiunse altro.
Il detective si concentrò sul suo avversario. Cercò di ricordare una scena analoga de Il Ritorno dello Jedi, ma poi gli venne in mente che lui, la Forza, non ce l’aveva, e allora estrasse la pistola e gli sparò due colpi al basso ventre. Andarono entrambi a segno, penetrando nella carne, ma l'unico effetto che ebbero fu di far infuriare il troll. Qroth urlò, sollevò la mazza e la calò su Hurt; il detective si raggomitolò e rotolò di lato, ma nel movimento perse l’arma. La mazza si abbatté sul pavimento, facendo tremare le pareti. Hurt si rimise in piedi e girò attorno a Qroth, che di contro sembrava un po' legato nei movimenti. Qualcosa brillò a terra, alla luce delle fiaccole: la catena con cui lo tenevano fermo quando non serviva. Un'estremità era libera, ma l'altra era ancora legata al polso del mostro; la afferrò, se la avvolse tra spalla e gomito e poi tirò, cercando di fargli perdere l'equilibro.
Il braccio di Qroth accompagnò il gesto, ma quando andò ad appoggiarsi sul suo inguine, lui tirò dall'altra parte. Hurt venne gettato a terra e lasciò andare la catena prima di trovarsi sotto le sue gambe.
Uno scoppio di risa e insulti irruppe dalla grata, mentre gli elfi e i nani commentavano lo scontro.
"Mossa stupida" ammise il detective, obbligandosi a non ascoltare le loro battute. Si rese conto di essere caduto vicino a qualcosa. Con la coda dell'occhio vide vecchie ossa ammucchiate ai lati della segreta, alcune ancora vestite di pesanti armature. Afferrò l'oggetto che aveva a fianco: una sarissa dall'asta spezzata, ma lunga ancora tre metri buoni.
Qroth si era girato e lo stava cercando con lo sguardo. Hurt si risollevò e, con tutta la forza che aveva in corpo, provò a infilzarlo. Puntò al petto, ma la sua spessa pelle fece scivolare la lancia che finì per perforarlo di lato, tra le costole. La bestia urlò e lasciò cadere la mazza, poi indietreggiò. Hurt non riuscì a disincastrare l'arma, e dovette abbandonarla. Ma prima che riuscisse a pensare a qualcosa il mostro si era fatto avanti, lo aveva afferrato per i fianchi e lo aveva sollevato per aria. Contava di fargli disegnare un arco sopra la testa e schiacciarlo sul pavimento; ma Hurt riuscì ad afferrare una delle sbarre della grata e a rimanervi appeso. Quando Qroth calò la mano, urlando, il colpo andò a vuoto: lì non c'era più nessuno. Si guardò attorno, cercando di capire dove fosse finito il suo cadavere.
Hurt sospirò. Non avrebbe potuto rimanere a lungo appeso: sentiva già le braccia che gli si indolenzivano. Così si lasciò cadere sulle spalle del troll, serrandogli le gambe attorno al collo.
Il mostro urlò e corse in cerchio, muovendosi nel tentativo di afferrare il detective. Schiamazzi provenivano dalla Sala Grande, urla di cortigiani che invitavano Hurt a scendere e ad affrontare Qroth faccia a faccia. Non c'era pericolo: il detective sapeva che, se lo avesse fatto, non sarebbe durato un altro minuto. Doveva giocare sporco.
Rese intangibile la mano, lasciando che il guanto gli scivolasse via, e la immerse in profondità nel cranio del troll. All'improvviso il mostro si fermò, balbettando in una lingua sconosciuta. Le labbra gli tremarono, gli occhi gli divennero strabici e le gambe smisero di reggerlo... cadde a terra. Hurt fece appena in tempo a liberarsi per non finire schiacciato lui stesso, e si piegò su di lui.
Alzò il capo in direzione del soffitto. Oltre la grata, nella Sala Grande, nessuno parlava più.
"Ti accetto come nostro inviato" disse Hreidmar, sebbene dalla sua voce trasparisse la delusione. "Vai e facci vincere questa guerra".




L'ULTIMO EPISODIO TRA SETTE GIORNI!