venerdì 18 aprile 2014

Selene Stoker, by Irene Pace


L'ambigua Selene Stoker, direttamente dal quarto episodio "Jack Daniel's". Sentirete ancora parlare di lei.



mercoledì 16 aprile 2014

Editoriale 4


Cani & pistole

[Editoriale a cura di Marco Redaelli]




Ero nel bel mezzo di un blocco dello scrittore la prima volta che sono venuto in contatto con Jack.
Il romanzo che stavo scrivendo non sembrava andare da nessuna parte. L’idea di buttar giù anche solo una o due parole mi metteva addosso una pesantezza insopportabile. Poi ecco Stefano che, dal nulla, mi propone di scrivere la storia di questo strano detective dell’occulto. 
Un altro Dylan Dog? All'inizio ero un po’ perplesso: l’idea non mi pareva delle più originali. Però, appunto, con quello che stavo scrivendo ero impantanato, quindi gli ho detto “Passa qua!” e ho iniziato a leggere i suoi tre racconti.
Una boccata d’aria fresca. La storia era leggera, divertente ma con spunti interessanti: lavorarci mi avrebbe permesso di spaziare fuori dal mio genere e allenarmi nella stesura di racconti brevi. Era quello di cui avevo bisogno.

Il mio Jack ha finito con l’ispirarsi ad altri personaggi, rispetto a quelli da cui ha tratto ispirazione Stefano. Molto di lui nasce da Roland Deschain della saga della Torre Nera di Stephen King, l’ultimo cavaliere di un mondo che è scomparso, e da Dean Winchester del telefilm Supernatural, il mio punto di riferimento quando si parla di dar la caccia a mostri. La cosa interessante è che questi aspetti non erano in contrasto con quelli originali; anzi, erano come diverse sfaccettature di un unico personaggio, come fosse stata proprio questa la nostra idea dall'inizio e non ci fossimo invece affidati all'improvvisazione (noi siamo professionisti, a casa non fatelo).
L’ultimo racconto che avete letto, “Jack Daniel’s”, è il primo che ho scritto.  Avevo bisogno di rendere mio il buon Jack, trovare un punto di aggancio tra la creatura di Stefano e il genere che mi viene meglio raccontare. Coi gialli e le indagini non mi sono mai trovato a mio agio; al contrario la componente sovrannaturale mi è più consona, e in Hurt ho subito notato una intollerabile mancanza di demoni. Per lo stesso motivo gli ho anche dato la mano fantasma... volevo enfatizzare il fatto che, prima ancora di essere un investigatore, Jack è un mago.
Pensavo sarebbe stato divertente partire da qualcosa di apparentemente innocuo, come un animaletto scomparso, per passare a un’escalation di situazioni alla fine delle quali l'anima stessa di Jack fosse in pericolo. Ed è qui che emerge per la prima volta il suo spirito di sacrificio, autodistruttivo, e il suo desiderio di punirsi per ciò che ha fatto o per ciò che non è riuscito a fare.
Poi c’è il cane. In origine doveva essere una capra, ma le capre più che ruminare e mangiare spazzatura non fanno. Ho accarezzato la possibilità di farlo diventare un cinghiale, perché a tutti piacciono i cinghiali, ed è inutile Stefano che tu scuota la testa, è così; ma ancora non sembrava giusto. Il cane alla fine mi è parsa la soluzione migliore. L’idea era che sparisse alla fine della storia, ma poi ho pensato che dare a Jack un compagno/spalla comica non potesse che giovare a tutti.

Scrivendo “Jack di Fiori” intendevo invece rispondere a un'interessante domanda: chi è Jack Hurt in realtà? Avevamo scritto un sacco di scene di azione e mistero per lui, ma il suo lato emotivo e il suo passato rimanevano un enigma. Ne ho approfittato per dare un po’ di colore alla pistola - ogni eroe che si rispetti deve possedere un’arma con una storia intrigante alle spalle - e a Rosemary, per trasformarla in qualcosa di più di una comparsa.
Prima di scrivere questo racconto mi ero imbattuto per caso nella leggenda di Gawain e del Cavaliere Verde, e ho pensato potesse essere carino renderla più alienante e adatta alla nostra serie.
Quindi ora il nostro Jack ha una mano fantasma, una pistola, un passato tragico, una inspiegabile passione per la danza e un cane parlante. Gli mancano un cappello e il superpotere del volo per essere perfetto.
E un t-rex, naturalmente. Il t-rex è fondamentale. Ma andate a spiegarlo agli altri sceneggiatori.

lunedì 14 aprile 2014

EPISODIO 4


Jack Daniel's

[di Marco Redaelli]




"Mi spiace per la sua perdita, signorina Stoker. Ma non vedo come io possa aiutarla".
Hurt era stato attirato, con la promessa di un lavoro, in un piccolo negozio di chincaglieria New Age fuori città. L’odore di erba e incensi gli faceva girare la testa. Flaconcini colorati erano esposti ovunque, e oltre teche di vetro si intravedevano collane e orecchini con motivi a teschi e pentacoli. C’era perfino una libreria, con testi prestigiosi quali “Cento ricette per il filtro d’amore”  o “Ouija per negati”. Hurt non avvertiva alcun formicolio alla mano, il che significava che quel posto non era più magico della punta del suo naso.
"Chiamami Selene" disse la donna. Vestiva abiti scuri e succinti, tutti pelle e borchie, e aveva una quantità di braccialetti e monili d’argento che le tintinnivano ad ogni gesto. Mentre parlava si arrotolava senza sosta intorno a un dito l’unica ciocca viola dei capelli neri.
"Selene, d’accordo". Il detective annuì, spazientito. "Non credo di essere la persona più adatta per occuparsi di questo caso. Con dei volantini otterresti lo stesso risultato".
"Non posso scatenare la città alla ricerca di Daniel" esclamò Selene, quasi offesa da quella proposta.
Hurt non la stava ascoltando. Da quando aveva messo piede in quel negozio aveva capito che quel giorno non ci sarebbero stati né misteri né - il che era peggio - soldi: pescare una mano sfortunata, lo chiamava. Il suo emisfero sinistro stava studiando la cartina della città, cercando di ricordare se ci fossero Mcdonald’s nei paraggi, ma il suo emisfero destro cercava di capire quanti anni potesse avere Selene.
Fra i venticinque e i trenta, stabilì. Per il resto, gli strati di cipria e di trucco rendevano impossibile una valutazione. Abbastanza per chiederle di uscire se non fosse stata sua cliente... per l'appunto, un’altra valida ragione per rifiutare il caso.
Lasciò che i suoi pensieri divagassero mentre studiava le labbra carnose della donna aprirsi e chiudersi, fingendo di ascoltarla e annuendo alle giuste pause del discorso.
"…e poi, Hurt, sono certa che sei l’uomo che fa per me".
"Credo anch'io" disse Hurt in automatico.
"Non potevo rivolgermi alla polizia, naturalmente. Loro non avrebbero capito. E così mi è tornato in mente l’articolo del signor Collins sul National Enquirer. Ne abbiamo parlato per settimane al circolo Wicca".
Hurt sospirò, poggiandosi la fronte stanca su una mano. Si trattava di quello, naturalmente.
Tempo prima un diavolo si era impossessato delle rotative di un quotidiano. Inizialmente solo i più attenti si erano accorti della possessione: messaggi satanici composti dalle prime lettere di ogni parola del sesto capoverso di pagina sei, pubblicità di chiromanti locali sostituite da dubbi annunci sulla compravendita di anime, e le pagine della cultura, che tanto nessuno leggeva, scritte in aramaico.
Quando il fenomeno si era ingigantito al punto da tormentare gli incubi di due giovani reporter, il detective era stato costretto a intervenire. In seguito una dei reporter era stata assunta come segretaria della sua agenzia; l'altro, Paul Collins, era invece diventato la sua personale spina nel fianco. Aveva raccontato la sua storia ad ogni rivista del paranormale, e si era messo a tampinarlo e a indagare la natura dei suoi casi. Alcuni scoop erano un mucchio di sciocchezze (Jack conservava, appeso alla parete dello studio, un articolo brillantemente scritto in cui Collins si dichiarava quasi certo che avesse rispedito nella tomba lo zombie di Elvis). Altri invece, come uno in cui lo si collegava a delle misteriose ed effimere impronte di ippopotamo gigante, si avvicinavano pericolosamente alla verità.
Quegli articoli avevano avuto un effetto deleterio sulla sua carriera, e avevano finalmente posto un punto alla diatriba se esistesse o meno della cattiva pubblicità. Naturalmente chi trafficava in artefatti o stava nel giro da un po’ non si faceva scrupoli a rivolgersi a lui; presso i cosiddetti clienti normali, invece, che avevano sempre costituito il grosso dei suoi introiti, aveva perso ogni traccia di credibilità (gli parevano passati secoli dall’ultima volta che aveva pedinato un marito infedele).
Esisteva poi una terza categoria di clienti, di solito senza un soldo e in cui Hurt aveva finito per includere anche Selene, che lui amava definire familiarmente gli idioti.
“Ho un album pieno di articoli su di te e di tue foto! Penso che tu sia la persona giusta per riportarmi il mio cane. Non ho mai visto un’aura pulita quanto la tua!”
L’investigatore sbuffò. Aure, come no. Al mondo c’erano valanghe di fenomeni paranormali, dalla telecinesi alle possessioni, e quella donna aveva scelto di credere proprio a uno di quelli che erano una stronzata.
“Penso che la Protezione Animali si occupi di casi del genere. Faresti meglio a rivolgerti a loro”.
Per quanto fosse piacevole guardare la scollatura della sua cliente, non era comunque un motivo sufficiente per sopportare altre perdite di tempo. Si allontanò dal bancone, dirigendosi verso l’attaccapanni a forma di scheletro.
“Non capirebbero”. Selene lo inseguì, strattonandolo per la manica. Nonostante il cocktail di odori che aleggiava nella stanza, Hurt sentì distintamente il suo profumo di oli orientali, patchouli e simili. “Cosa pensi dirà la protezione animali quando Daniel si metterà a parlare?”
“Ma perché mai… a parlare?”  L’investigatore arrestò un passo a mezz’aria, rimanendo in bilico sulla pianta del piede; poi si girò e si mise a fissarla. Selene sembrava una ciarlatana, ma c’era una possibilità, per quanto minima, che stesse dicendo la verità.
“Certo! Daniel non è un cane qualsiasi. È il mio famiglio. L’ho evocato col Minuetto di Fitzgerald. Era in un libro che la nonna mi ha lasciato in eredità”.
Hurt rimase a bocca aperta, e si rimproverò per essere stato tanto distratto. Selene Stoker sarebbe anche potuta essere la strega più scarsa e male in arnese della storia, ma sempre di strega si trattava; il famiglio non lasciava adito a dubbi. Il Minuetto di Fitzgerald era un rituale segreto su cui nessuna strega amatoriale avrebbe potuto mettere le mani: la Sorellanza Bianca non lo avrebbe permesso. La strega si strappava un pezzo della propria anima e lo offriva a un animale guardiano; in cambio quest’ultimo le avrebbe fornito assistenza nei suoi incantesimi.
“Questo cambia tutto” disse Hurt, cercando di darsi un contegno. “Per quanto riguarda la mia parcella…”
Selene si premunì di ficcargli in mano sei pezzi da cinquanta. “Non sarà un problema. Penso sia meglio tu inizi a cercare Daniel subito: non vorrei che qualcuno si accorgesse di lui. Posso aiutarti, se vuoi... non me la cavo affatto male con i tarocchi”.
“No!” esclamò Hurt. “Niente tarocchi. Non ho un buon rapporto con i tarocchi. Meglio usare metodi più tradizionali”. Cercò di riguadagnare un tono professionale. “Dimmi, Selene, dove hai visto il tuo cane per l’ultima volta?”

Per tutta la settimana Hurt provò a pensare come un cane. Visitò i campi vicino alla città e le discariche, e tutti i posti solitamente frequentati dai randagi. Alla fine, dopo tutte quelle ricerche, si gettò sul letto in preda allo sconforto. Pensò e ripensò a dove potesse essersi nascosta quella bestiaccia, e nel chiederselo finì con l’addormentarsi.
Sognò qualcosa di bizzarro. Sedeva a una tavola calda orribilmente simile al bar dove Hopper aveva disegnato i suoi Nottambuli. Aveva una sete terribile, ma per quanto si sgolasse a chiamare non arrivava mai nessuno.
“Rinunciaci” disse una voce accanto a lui. “Io comunque mi sono rassegnato”.
Seduto su uno sgabello stava un grosso cane da pastore irsuto, dal manto nero e dagli occhi coperti da una frangia pelosa. Indossava un impermeabile e un cappello che sembravano rubati ad Humphrey Bogart. Al momento era impegnato a sbocconcellare con aria assorta pezzettini del menù di cartone.
“Daniel, suppongo” disse Hurt, alzando un sopracciglio.
Il cane soffiò dalle fauci, guardandosi attorno con aria diffidente. “Niente nomi” disse.
E tutt’a un tratto Hurt capì che per tutto il tempo non era riuscito a trovare Daniel perché questi si era nascosto nella sua testa. Era stato furbo: era l'unico posto al mondo dove avrebbe guardato.
“Sono ragionevolmente sicuro che nessun altro può sentirci”.
“Hanno orecchie ovunque” sussurrò il famiglio, sbavando sulla sua spalla. “I russi. I Grigi. Gli Illuminati!” Scese con un balzo dallo sgabello, nascondendosi dietro il bancone.
“Ci siamo solo tu e io in questa testa”.
“Certo! Nessuno entra qui senza il tuo permesso”.
Hurt sventagliò una mano, come a scacciare un problema di poco conto.
“È tempo che facciamo un discorso io e te, Daniel” disse. “È molto che ti cerco”.
Ma già il cane non lo stava più ascoltando. Stava brucando il pavimento, strappando pezzi di tappezzeria come fosse un fondale di cartapesta. Dove mangiava rimaneva solo un’indistinta chiazza d’oscurità. “Io non ci torno indietro” sbottò. “Non ha nemmeno il Wi-Fi. E il postino mi guarda sempre storto ogni mattina, e Selene sta facendo i preparativi per sacrificarmi a un Principe dell'Inferno, e la vicina minaccia di scuoiarmi ogni volta che faccio i miei bisogni nel suo giardino!”
Hurt sospirò, accasciandosi sul bancone. “È la tua padrona, Daniel. Non farebbe nulla di simile. Non è la persona più brillante di questo mondo, ma dubito sacrificherebbe parte della sua anima a un demone. E poi l’hai vista: è tutta mineralogia e New Age, pace e amore, e cazzate da... poser. Esci da questo sogno. Penso di avere dell’arrosto in frigo, se ti sbrighi, e forse anche qualche avanzo di pizza di ieri sera. Possiamo cenare insieme se ti va”.
“Pizza!” abbaiò felice Daniel, scodinzolando con foga.
“…e poi torneremo insieme da Selene”.
Il cane snudò i denti e ringhiò. “Non puoi costringermi. Qui ho del potere, sai?”
Batté una zampa per terra. Il bar si trasformò in una foresta in una notte senza luna, con ombre vaghe e indistinte che li spiavano da dietro i tronchi. “Potrei scagliarti contro un drago, se lo volessi. O… o… un pony. O un’invasione di zombie!” disse; quindi batté di nuovo la zampa a terra.
Mani cadaveriche uscirono dal terreno, accompagnate da una sinfonia di lugubri lamenti. Tombe apparvero dal nulla solo per essere fatte a pezzi, e pallidi morti dai vestiti a brandelli ne uscivano sbavando e protendendo le mani verso di lui.
Hurt non sembrò per nulla impressionato. “Mi sono successe cose più strane. E quelli sono wight, non zombie. È una sfumatura che in ben pochi colgono, si tratta di…”I non morti si fecero più vicini, e Jack decise di rimandare la lezione ad un secondo momento. Uno schiocco di dita e la foresta scomparve, lasciando al suo posto un infinito spazio bianco. “Mia la testa, mie le regole” disse.
Ma all’improvviso si rese conto che il cane stava scappando. Trottava velocemente verso l’orizzonte.
Hurt sospirò, togliendo il guanto destro da cui non si separava mai. La sua mano brillò per un istante di luce azzurrina. Gli bastò un solo passo per coprire i molti metri che lo separavano da Daniel, lo raggiunse e lo toccò sul capo, e il sogno sputò fuori entrambi.
Jack Hurt si svegliò nel suo letto abbracciato a un ammasso di pelo. Nella realtà il famiglio non aveva più l’impermeabile, ma per qualche motivo gli era rimasto il cappello.
Si scrollò il cane di dosso e si sporse sul comodino a prendere la pistola a dardi che in quei giorni si portava sempre dietro.
Daniel lo guardò con un sogghigno. “Bel pigiama” disse. “Non ti facevo un tipo da gattini”.
“Be', sai come si dice” rispose Hurt. “Ci sono due tipi di persone in questo mondo. Quelli che amano i cani e…”
Premette il grilletto.

Ormai era mattina inoltrata. Caricò il cane sul sedile posteriore e guidò fino al negozio di Selene. Voleva chiudere il caso il più presto possibile e prendersi una bella sbronza. Oppure voleva lanciare un paio di complimenti alla sua cliente e invitarla a cena. Ancora non lo sapeva.
Selene fu entusiasta di vederlo tornare. Gli fece scaricare Daniel sul divano e lo salutò con un abbraccio un po’ troppo caloroso per essere strettamente professionale.
“Temevo di non ritrovarlo più” disse la ragazza, accarezzando la testa del famiglio addormentato. “I miei ringraziamenti, Jack”.
“Non è stato difficile” si schernì lui. “Ma penso dovreste lavorare sul rapporto di coppia. Lui crede che tu lo voglia sacrificare a qualche creatura infernale”.
Hurt aveva proferito quell’ultima frase come se dovesse essere una battuta, ma Selene non rise.
“Stupido cane” sibilò. “Gli avrei tagliato la lingua, se avessi saputo che te lo avrebbe detto”.
Quel tono di voce spinse Hurt ad arretrare. Qualcosa non tornava. Quella sensazione si acuì quando si rese conto che la pistola a dardi non era più nella sua fondina.
“Scusa, Jack”. Selene abbozzò un sorriso imbarazzato, stringendosi nelle spalle, come se l’avessero beccata a rubare della marmellata. Poi rivelò da dietro la schiena la pistola e, prima che Hurt potesse fare qualcosa, gli sparò.

Esistono modi peggiori di svegliarsi che il trovarsi ammanettati a un calorifero in uno scantinato pieno di pentacoli e candele. Non molti a dire il vero, e Hurt in quel momento non riusciva a ricordarne nemmeno uno.
Su un altare di pietra al capo opposto della stanza qualcuno aveva legato Daniel, premurandosi di imbavagliarlo. Tutto intorno a lui c’erano teschi ed effigi di demoni, e il pavimento era ricoperto di simboli e figure geometriche tracciate con il gesso, inscritte in un unico, grande cerchio.
Appena fuori dalla circonferenza, Selene stava sfogliando un libro in pelle umana. O in similpelle, che costava certamente di meno.
Indossava una tunica nera con un cappuccio, e quello non era mai un buon segno. Passava le dita tra i fogli, nervosamente, facendo scivolare una pagina sull’altra in cerca di qualcosa.
“Salomone” riuscì a mormorare Hurt, riconoscendo le parole in ebraico maccheronico ricopiate sul pavimento. “La Bottiglia…”
Selene alzò lo sguardo e lo posò sul detective, come fosse sorpresa di trovarlo lì.
“Precisamente” disse, rivolgendogli un sorriso radioso che stonava col resto dell'ambiente. “La Bottiglia di Re Salomone. Sono duecento anni che nessuno prova più quest’incantesimo. Che cosa buffa!”
"E tu non ti sei fatta qualche domanda?” biascicò Hurt, cercando di svegliarsi del tutto. Sia la pistola a dardi che la Smith&Wesson erano sparite, e il sonnifero lo aveva lasciato troppo frastornato per consentirgli di usare la telepatia.
Selene scoppiò in una risata calda e argentina, che sovrastò i mugolii di terrore del cane. “Ho passato una vita intera in cerca della magia. Anni di letture di inutili libri sui chakra e sulla meditazione, di tentativi falliti di viaggi astrali. Tu sai cosa vuol dire”. Poggiò la punta del sedere sull’altare di pietra, stendendo le gambe sul pavimento. La tunica scivolò di lato mostrando le lunghe gambe. “Poi mi è arrivato in eredità il grimorio ed è cambiato tutto". Strinse le mani. "Ho creato il mio famiglio! E grazie a lui sono riuscita a fare le mie prime maledizioni, le mie prime vere predizioni... e tutto quel genere di cose. Ma più leggevo il libro, più mi rendevo conto che quelli che credevo prodigi non erano che ninnoli paragonati alla vera magia... E, ora che ti ho finalmente conosciuto, posso condividerla con te”. Il suo sorriso si trasformò, arcuandosi verso l’alto e prendendo una piega maliziosa. “Quando avrò compiuto questo rituale mi inviterai a cena, che tu lo voglia o meno. Ma so che lo vuoi” aggiunse, tirandosi in piedi e coprendosi di botto le gambe.
Selene circumnavigò l’altare fino alla parte opposta, si girò a guardare la cantina, cioè a guardare Hurt, e iniziò a leggere una lunga formula dalla sua grammatica.
Tutto sommato Hurt non se la sentiva di incolparla. Era, pensò, come una bambina che, preso un assaggio di torta, vi si avventava sopra senza preoccuparsi dell'indigestione. Pensava ai prodigi e ai miracoli e a conquistarsi il suo cuore, ma non al prezzo che avrebbe dovuto pagare per farlo. Avrebbe avuto tutta una vita per pensarci. Certo, a meno che non fosse riuscito a fermarla.
La strega iniziò a intonare una formula arcana che mischiava il latino all'ebraico. Hurt, confuso com’era, non riuscì a seguire del tutto lo svolgersi dell'incantesimo: riuscì tuttavia a carpire una parola, e questo bastò a fargli strabuzzare gli occhi.
Baphomet.
"Non c’era bisogno di spingersi a tanto per avere un appuntamento con me" disse.
Cercò di strattonare le manette, ma invano. Solo allora si rese conto che la mano ammanettata era la destra, la mano inguantata, la mano fantasma. Se solo fosse riuscito a concentrarsi…
All'improvviso si rese conto di un particolare e sbiancò. Il circolo di evocazione era stato disegnato in modo scorretto, e due delle parole di confinamento erano state invertite. Le urlò di fermarsi, ma ormai era troppo tardi.
Non appena l’ultima sillaba venne pronunciata, ci fu un lampo di luce accecante e nella stanza si levò un acre odore di zolfo. Dietro all’altare apparve un uomo vestito con un elegante completo color sangue. Tre corna troneggiavano sulla sua testa caprina, e sul terzo, che gli cresceva in mezzo alla fronte, ardeva e danzava una fiamma blu.
Baphomet si aggiustò la cravatta, guardandosi attorno con aria di sufficienza. “Ed egli sembrava un agnello, ma parlava con voce di pantera” disse.
“Ce l’ho fatta!” esclamò Selene, gioiosa, lanciandosi il grimorio alle spalle. Quindi cercò di assumere un aspetto più solenne, alzando le mani al cielo. La tunica le ricadde sulle braccia magre, e l’effetto che ne risultò fu più che altro comico.
“Salute a te, che sei creatura e non Creatore. Ho legato la tua forma fisica a questo mondo e le tue azioni al mio volere. Ti comando, secondo gli insegnamenti di re Salomone, di completare l’unione e di…”
Baphomet batté le palpebre. Alzò un dito e la strega venne scaraventata contro il muro. “Ci dev’essere un errore” disse. Uscì dal circolo di gesso ignorando il cane. Raccolse un teschio di plastica e lo ridusse in cenere solo alitandogli sopra. “Non volevi veramente evocare me, ragazzina. È la tua prima evocazione, non è vero? Solo una sciocca evocherebbe me la prima volta”.
Da Selene non giunse risposta, solo singhiozzi sommessi. Aveva gli occhi spalancati e fissava il suo demone. Ora che si era resa conto di quello che aveva fatto si portò una mano a coprirsi il volto, come se con quel gesto volesse escludere il mondo esterno; eppure continuava a sbirciare, ipnotizzata, dagli spazi vuoti tra le dita.
Il demone sospirò, scuotendo il capo. “Come sospettavo. Naturale sia la tua prima volta. Nessuno potrebbe fare errori così stupidi due volte”. Si guardò attorno e solo allora posò lo sguardo su Daniel. “La Bottiglia di Re Salomone? Sul serio? Volevi farmi passare l’eternità intrappolato nel corpo di un cane? Barattare la tua anima per farmi schiavo?”
Baphomet si avvicinò alla strega, accovacciandosi sui talloni e prendendole il mento tra le dita. Lei non poté far altro che guardare nel pozzo di dolore che erano i suoi occhi. “Un incantesimo troppo vecchio e debole per me. Ma una simile sfrontatezza va punita, e mi prenderò comunque la tua anima”.
“Ti prego” lo supplicò Selene. “Se mi lasci andare io…”
“Forse non hai capito. Non è questione di se. È questione di quando. Penso che ora mi divertirò un poco con te, sai? Prima di portarti via". Le sorrise, accattivante. "Scegli cara: il fegato o i timpani?”
Selene pensò di stare per svenire, ma proprio in quel momento “Posso fare una controproposta?” disse Hurt. Riuscì per un attimo a focalizzare i suoi pensieri: la sua mano destra passò attraverso le manette, riconsolidandosi subito dopo, e fu di nuovo libero. Si rialzò in piedi e si massaggiò il polso dolorante.
“Io ti conosco, Jack Hurt” esclamò Baphomet. “Dicevano fossi più furbo di così. Non mi sarei aspettato di trovarti in questa trappola per topi”.
Hurt si strinse nelle spalle e sorrise. “Siamo qui per parlare o per trattare?” disse.
“Io sono qui per torturare, mangiare e straziare. Ma hai ragione. Parlavi di una controproposta: cosa mi daresti in cambio della salvezza della strega?”
“La mia anima” rispose lui. “Una volta che sarà giunta la mia ora” aggiunse quindi, con cautela.
Baphomet emise una risata simile a un belato, e tutte le fiammelle di candela si spensero. L’unica fonte di luce rimase la fiamma che gli ardeva sulla fronte. “E cosa me ne farei dell’anima di un piccolo mago? Quando posso avere un’anima giovane già fin d'ora?”
Hurt deglutì e si fece avanti di alcuni passi, dentro l’inutile cerchio protettivo. Disse qualcosa a voce bassissima e le orecchie del demone scattarono. I suoi occhi si spalancarono su di lui.
“Dici davvero?” chiese. “Tu sei…?” e rimase a boccheggiare, studiando con interesse il corpo smilzo di Hurt, soffermandosi sulla mano guantata e sulla cicatrice a forma di croce che aveva sotto la guancia destra. “Il Fante di Cuori?”
Hurt annuì. “Ma bada, il saperlo non ti gioverà. Il mio nome è stato sigillato, e nessuno può pronunciarlo. Per tutti io sono Jack Hurt”.
Baphomet si accarezzò la barba, sempre più perplesso. “Mi stai quindi chiedendo, Cavaliere, di rinunciare a un ninnolo inutile in cambio di un pezzo da collezione. Perché? È davvero così importante questa ciarlatana?”
Hurt alzò le spalle. “Una volta io ero come lei” disse. “Qualcun altro pagò per i miei errori. Ora è il momento di ricambiare il favore”. Il volto del detective si incupì. “Diciamo che voglio unire l’utile all’inevitabile, e andare a fondo da solo”.
“Sta bene” disse Baphomet, annuendo. “Hai una sigaretta?”
"Perché no?"
Fumarono in silenzio, guardando il cane che si dimenava sotto la stretta delle corde, e il patto venne siglato.
“Dimmi” gli chiese Baphomet dopo qualche minuto. “È vero che hai sparato allo zombie di Elvis?”
“Tutte cazzate” rispose Hurt meccanicamente. “Era uno wight”.
“Devo ricordarmi di aprire un girone per i giornalisti bugiardi, uno di questi giorni.”
Baphomet gettò a terra il mozzicone, schiacciandolo con il tacco della scarpa. “Per me è tempo di andare. È stato un piacere concludere affari con te... Jack Hurt”. Si strinsero la mano. “Ci rivedremo presto”.
“Non c’è fretta” sorrise Hurt; ma l’altro si limitò a ripetere “Presto” e svanì in una nuvola di fumo.
Hurt andò ad aiutare Selene a rialzarsi. La donna tremava ancora, più bianca del solito. “Mi hai salvato la vita. Io…”
Il detective le appoggiò un dito sulle labbra. “Fa tutto parte dei servizi che offro per contratto" disse. "Promettimi che abbandonerai queste sciocchezze e saremo pari”.
Lei sorrise, annuendo. Gli si avvicinò per un bacio, ma l’investigatore la schivò all’ultimo.
“Dobbiamo pensare a cosa fare di Daniel” disse Hurt, come se non fosse successo nulla.
Mai invischiarsi in rapporti sentimentali in orario di lavoro, pensò. Forse più tardi, dopo essersi tolti di dosso l’odore dello zolfo. “Non credo vorrà tornare con te dopo quello che stavi per fargli”.
“Puoi tenertelo” rispose la donna, furente. “E per quell’uscita a cena, piuttosto?”
“Difficile. Ne riparleremo in futuro. Non dico di no" aggiunse, in tono vago. "Sono successe cose anche più strane”. Andò a liberare Daniel dalle corde che lo tenevano fermo e dal bavaglio.
“Sei stato grande, boss!” grufolò il cane, appena ebbe il muso libero. “Ma me la sarei cavata anche da solo, si intende”.
“Non ne dubito" disse Hurt sorridendogli. Poi aggiunse: "Per come la vedo io hai due scelte, ora: o rimani qui a vivere con la donna che ha cercato di ucciderti, o ti trasferisci da me”.
Il cane parve pensarci un attimo, poi sbatté le palpebre. “Hai il Wi-Fi?” chiese.
Hurt scosse la testa. “È già tanto se ho internet”.
“Pizza tre volte alla settimana?”
“Se così fosse ne mangerei di meno”.
“Musica in auto?”
“Rock classico o country”.
Daniel grugnì. “Ne discuteremo. Ma per ora può andare”.
Il cane saltò giù dall'altare e passò davanti alla sua padrona, sbavando soddisfatto sulle sue scarpe. “Tornerò per vendicarmi, baby” disse.
“Non aspetto altro” rispose lei, squadrando cupamente il suo ex-famiglio. Ma il suo sguardo si addolcì di molto quando Hurt le strinse la mano.
“Signorina Stoker, è il momento di salutarci. Mentirei se ti dicessi che è stato un piacere”.
“A presto, Jack”.
Il detective fece un sorriso storto, e il suo dente d’oro scintillò nel buio. “Non c’è fretta” rispose per la seconda volta, e si allontanò ad ampi passi.

Rimasta sola nello scantinato, Selene passò due ore a ripulire pareti e pavimento, cancellando il gesso, la cera e le tracce di sangue, e gettando nell’immondizia il grimorio della nonna. Aveva chiuso con la magia, si disse.
Quasi per caso, vicino al calorifero dove aveva ammanettato Hurt, trovò due lunghi capelli neri. Li strinse nel pugno, mordicchiandosi un labbro. Odoravano di zolfo e tabacco, ma era ugualmente il profumo migliore che avesse mai sentito.
Mentre tornava in negozio le capitò di ripescare il libro dal cestino dei rifiuti.
In fondo, pensò, non c’era nulla di male in un incantesimo di tanto in tanto.