giovedì 25 settembre 2014

SPECIALE 3

Jack Hurt: Le Terre dell'Autunno [Tre di Tre]

[di Stefano Mazzoni]




IV. Scontro tra campioni

Gli eserciti di Dom-Daniel e di Avalon, di Tir-nan-Og e del Mag Mell, del Connacht e dei Cinque Regni si erano riuniti all'ombra delle torri di Oberon, inneggiandolo come unico signore di Faerie. Un gigantesco campo di tende blu, verdi e argento sorgeva attorno alla strada del re, fin quasi al guado custodito da Little John. Alcuni folletti avevano provato a recintarlo con una palizzata di legno, ma i primi tronchi giacevano a terra già svelti e dimenticati dai loro costruttori. Ovunque le bandiere coi simboli del Popolo garrivano al vento: l'albero di frassino dei Figli di Nemed e l'occhio bicornuto degli Eredi di Partholòn, il corvo e il cane della regina Morrigu e i tre fiumi delle razze Fir Bolg.
Le fate correvano da un capo all'altro dell'accampamento recando messaggi da parte di ufficiali più o meno riconosciuti, mentre animali dagli occhi umani si aggiravano inquieti, appena fuori dai confini del sentiero, cercando qualcosa da fare o, in alternativa, da divorare. Mentre inseguiva una ninfa, un satiro tagliò la strada ad Hurt, e un nano ciccione lo fermò per fargli dono di un vino di quercia, speciale e dal colore ambrato. Il detective rifiutò cortesemente e si diresse verso il padiglione centrale, la gigantesca tenda di Oberon che si ergeva sulla collina al centro dell'accampamento.
Il custode dalla testa di tulipano ora stava a guardia della tenda. Appena vide il detective abbassò la picca e gli sbarrò la strada; poi lo riconobbe, sbuffò e ritrasse l'arma. Hurt scostò la tenda ed entrò.
All'interno c'erano Oberon, ancora vestito della sua armatura da caccia, avvolto in un ampio mantello, e su un piccolo scranno accanto a lui un elfo molto più vecchio, con un  braccio che luccicava come fosse fatto d'argento. Puck, stavolta completamente nudo, stava inginocchiato davanti ai due, recando notizie dall'accampamento.
"Conan e Morc sono appena giunti, miei signori" disse. "E hanno portato con loro un vasto contingente di fomori".
L'anziano elfo strinse il pugno e distolse lo sguardo. Finalmente Hurt capì chi fosse: era Nuada, signore dei Tuatha de Danann, re d'Irlanda.
"Non sarebbero dovuti venire" disse, rabbuiandosi. "Manannan mac Lir è giunto da Tir-nan-Og e dal Mag Mell e ha portato truppe fresche. Non ha dimenticato la battaglia con Tethra dei fomori. Rischi la sua defezione".
Oberon sventolò una mano in direzione di Nuada e gli rivolse un sorriso fisso, di circostanza. "La guerra fa strani compagni di letto, dicono i mortali. Anche i Fir Bolg non sono contenti di dover combattere al tuo fianco, ma questo è". Gli occhi del re caddero su Hurt che se ne rimaneva in disparte, in fondo alla tenda, ma per il momento parvero ignorarlo. "Se hai qualche rimostranza da fare, ce la presenterai quando Hreidmar sarà stato sconfitto. Siamo stati chiari?"
Il vecchio parve sul punto di ribattere, ma dovette trattenersi e rimase in silenzio. Si lisciò la barba, si alzò e si batté il pugno d'argento sul petto. "Quando Dom-Daniel chiama, possa tutta Faerie rispondere" disse.
Oberon si batté a sua volta il pugno sul petto. Nuada si inchinò al suo re e si sbrigò a uscire dalla tenda, scostando malamente Hurt mentre passava.
"Così" disse Oberon, stavolta rivolgendosi proprio al detective, "sei tornato. Non ce lo saremmo mai aspettati".
Hurt fece un breve inchino e gli sorrise.

Contemporaneamente, il detective veniva scortato da due guardie elfe al cospetto di Hreidmar. Il re stava affilando un'ascia da guerra nelle stanze scavate nella viva roccia sotto il castello.
"Hai fatto un viaggio veloce" osservò il re.
"A Faerie le distanze sono relative" disse Hurt, spostando il peso da una gamba all'altra. "Si arriva sempre nel momento in cui si deve arrivare".
Hreidmer gli indirizzò uno sguardo indecifrabile, poi "Così dicono" concordò. Gettò la pietra d'affilatura sul letto e si girò verso Hurt. "Allora l'abbiamo già vinta, questa guerra?"

"Uno scontro tra campioni?" chiese Oberon, facendo schioccare la lingua tra i denti. "È questo che ti ha proposto il nano?"
Hurt annuì, deferente. "Uno scontro all'arma bianca. Niente magia. L'esercito del perdente giurerà obbedienza al vincitore".
Puck si mise a ridere, ma si zittì quando Oberon gli rivolse un gesto spazientito con la mano. Continuò comunque a seguire il dialogo, spostando con vivacità gli occhi da Hurt al suo re.
"Perché dovremmo accettare?" chiese Oberon. "Abbiamo radunato metà dei nostri vassalli, che a loro volta hanno portato metà dei loro valvassori. Dei valvassini non gliene importa comunque nulla a nessuno. Possiamo tranquillamente affrontare Hreidmar in campo aperto". Oberon si voltò, serrando le mani dietro la schiena, fissando con insistenza la parete nuda della tenda, come un bambino imbronciato.
"Perché, mio signore" disse Hurt pazientemente, "il tuo esercito rimarrà unito un paio di giorni al massimo".
Oberon sussultò, ma fece finta di non avere sentito.
"Le fate non sono fatte per marciare in guerra: per questo hanno perso le Antiche Guerre. E se Hreidmar sarà abbastanza furbo da rimanersene nel Nidavellir finché tu non sarai solo, per te non ci sarà più alcuna vittoria". Si portò al centro della tenda e pose una mano sullo scranno vuoto di Nuada. "Io ho visto il loro castello" continuò. "E ti posso assicurare che può reggere un assedio molto meglio di quanto potrai fare tu".

"Non vedo perché dovrei accettare" lo interruppe Hreidmar. "Quando potrei invece affrontarlo in campo aperto e staccargli la testa con un colpo della mia ascia".
Hurt sospirò. Sarebbe stato difficile convincerlo: quei guerrieri del nord avevano la guerra nel sangue. "Ho visto il loro esercito. Supera il tuo di cinque a uno".
Hreidmar sputò nel fuoco. Una fiammata più alta delle altre catturò la sua saliva, e per un istante le fiamme si tinsero di verde.
"Bastardi senza disciplina" li liquidò con disprezzo. "Andranno in rotta appena ci vedranno. Ognuno dei miei ne vale dieci dei loro".
"Ma Oberon ha un'altra freccia al suo arco" insistette il detective. "Conosce il Vero Nome della strada del re, e può comandarla a suo piacimento. Potrebbe farvi perdere, o lasciarvi vagare per secoli, o peggio ancora portarvi fuori dal sentiero".
"La magia è un'arma a doppio taglio". All'improvviso il re non sembrava più tanto impavido.
"Forse. Ma è pur sempre un'arma". Hurt estrasse una sigaretta, se la mise in bocca e si avvicinò al camino. Una vampata di fiamme magiche la accese. Il detective prese una boccata e iniziò a tossire; fissò per un attimo la sigaretta, con aria sorpresa, poi la gettò nel camino.
"Oberon ti sta offrendo la possibilità di vincere questa guerra" disse. "Io accetterei".
"E chi dovrei mandare?"
Hurt si pose una mano sul petto. "Me".
"Ho a disposizione migliaia di guerrieri, e tu ti aspetti che mandi te a combattere?"
Il detective si dondolò sulle punte e per un attimo distolse lo sguardo dal re, cercando di nascondere la sua paura. "Un uomo è più forte di qualsiasi elfo o folletto Oberon potrà mai schierare. Se è vero che non possono usare magie, abbiamo già la vittoria in pugno".
Hreidmar lo squadrò, corrugando la fronte. "Se mi parli di forza, potrei dirti che schiererò un gigante o un troll".
Hurt scosse la testa con foga. "È proprio quello che si aspettano. Oberon manderà un ammazzagiganti o un ammazzatroll. Ma oggettivamente nessuno si potrà aspettare... moi".
Il re sbuffò. Poi fischiò e scoppiò in una fragorosa risata. "Devo dire che parli in maniera convincente, mago" disse. "Il tuo piano è così stupido che potrebbe anche funzionare".
"Quindi?" insistette il detective, col cuore in gola.
"Sia. In fondo hai dimostrato di sapertela cavare. Tu servirai come campione per il Nidavellir".

"E se dovessimo accettare" chiese Oberon, torcendosi le dita magre, "chi dovrebbe essere il nostro campione?"
Hurt sorrise e si mise una mano sul petto. "Umilmente mi offro volontario, maestà".
Oberon si voltò di scatto, impigliandosi nel suo stesso mantello, ma si divincolò continuando a far finta di nulla. "Hreidmar schiererà uno dei suoi guerrieri più forti. E noi invece dovremmo mandare te?"
Hurt si batté il pungo sulla mano. "Dovreste perché nessuno se lo aspetta. Hreidmar si preparerà a ogni evenienza, a ogni trucco possibile, e farà in modo che il suo campione possa rispondere colpo su colpo al tuo... Ma non potrà mai immaginare me".
"Non cambia nulla. Schiererà i Giganti del Gelo o magari il più forte dei suoi troll" insistette il re. "Che speranza hai tu contro di loro?"
"Jotunheim non vorrà aver nulla a che fare con questo scontro. Non è una loro battaglia, e sicuramente non sono fatti per inchinarsi a un elfo". Il detective si portò una mano al petto, all'altezza della fondina. "Per quanto riguarda il troll... non sarebbe il primo che uccido".
Oberon si passò una mano sul pizzetto, squadrando il detective dall'alto in basso. All'improvviso batté i pugni sul tavolo e lo fece sobbalzare. "Chissà perché, messer umano" disse, "ancora non riusciamo a fidarci di te. Come se ci stessi nascondendo qualcosa".
Hurt deglutì, ma si obbligò a rimanere impassibile. Se Oberon avesse scoperto il suo piano sarebbe stata la fine.
"Tu che ne pensi, mio Puck?" 
Il folletto si gettò a terra, fece la ruota e si rialzò a fianco di Hurt, che indietreggiò di alcuni passi. Robin gli rivolse un'occhiata maligna che riuscì a rendere il detective ancora più nervoso, poi si rivolse al suo sovrano.
"Questo mortale" sentenziò, puntandogli un dito contro, "ha una faida aperta con nientepopodimeno che... la Dama Grigia".
Hurt avrebbe voluto zittirlo, ma non poteva far nulla finché il re li osservava. Oberon si portò le mani attorno alla bocca e invitò Robin a continuare.
"Ho scoperto che la Dama ha rapito uno dei suoi congiunti. Lo ha fatto secondo le regole, prima che venisse battezzato". Oberon annuì, da vero esperto. "Il mortale vuole vendicarsi di lei - o liberare il fratello, la cosa non mi è chiara". Sghignazzò e si scrocchiò le dita, lentamente, come volesse esasperare Hurt. "A chi è chiara, del resto? Per riuscirci comunque non c'è dubbio che avrà bisogno del nostro aiuto".
Il detective tirò un sospiro di sollievo. Oberon si risollevò e applaudì. "Sta bene, Puck" disse. Poi, rivolto ad Hurt: "Allora è deciso che sarai il nostro campione. Di certo ci tieni, a vincere questa guerra".
“Più di quanto immaginiate. Vi ringrazio, maestà”.
“Non ringraziare mai una fata”. Il re picchiò il piede a terra tre volte e il padiglione venne scossa da un violento terremoto. Hurt si precipitò all'uscita, sollevò la tenda e per un attimo pensò che tutto l'accampamento stesse sprofondando in una fossa. Ma no, erano loro a sollevarsi! Si aggrappò a una trave e si sporse con tutto il busto per guardare cosa stesse succedendo.
Da sotto il padiglione, al posto della collina, era spuntato un enorme cane carlino dal muso sbavante. In quel momento, con le sue zampe tozze, l'animale si mise a trottare sulla strada del re, diretto verso il Nidavellir.
Sarà un viaggio lungo, pensò Hurt.

L'incontro si sarebbe tenuto in campo neutrale, a metà strada tra le Terre dell'Autunno e quelle del nord. Per l'occasione Oberon aveva reso più ampia la strada del re, creando una specie di spiazzo su cui gli eserciti potevano incontrarsi e sfidarsi. Da una parte erano accampate le forze di Oberon, verdi, blu e argentee; dall'altra le tende dei guerrieri di Hreidmar, nere e marroni. Ai lati della strada, ai confini con la prateria magica, erano state costruite delle tribune da cui le truppe avrebbero potuto comodamente seguire lo spettacolo.
Hurt era seduto su una panca nell'armeria di Oberon, teso, lanciando ogni tanto uno sguardo verso le rastrelliere. Prese una sigaretta e se la accese, ridendo tra sé. "L'ultimo desiderio di un condannato a morte".
Nella tenda entrò un fomor dalla testa di capra, con le braccia cariche di spade. Le poggiò delicatamente sulla panca e si piazzò davanti al detective, le gambe larghe ben piantate a terra e i pugni sui fianchi.
"Il re avrebbe dovuto scegliere uno della mia gente" disse. "Siamo forti. In noi scorre il sangue dei giganti".
Hurt prese la sigaretta e la osservò consumarsi, poi la buttò a terra e la schiacciò con lo stivale.
"Ho bisogno di un'armatura" disse, ignorandolo bellamente.
Il fomor grugnì, ma si girò per andare a cercarla.
"Completa, che non lasci nulla di scoperto" precisò il detective. "Ma leggera, fatta dai Tuatha de Dannan. Avrò già abbastanza difficoltà a muovere la spada".
Il fomor si voltò, fissandolo con occhi sprezzanti, e tornò a cercare quello che gli era stato chiesto. Hurt lo seguì con lo sguardo, poi ruotò sulla panca e si stese, le mani dietro la testa, la nuca che sfiorava appena le spade, e chiuse gli occhi.

I corni di entrambi gli schieramenti suonarono e i campioni scesero nell'arena, lasciando le impronte dei loro stivali sulla sabbia. Non c'erano stati né altri incontri né altri accordi tra Oberon e Hreidmar: il patto era stato stretto, e ci avrebbero pensato le Sorelle del Wyrd a farlo rispettare, o a vendicarsi se qualcuno lo avesse infranto.
Oberon sedeva mollemente sul suo trono, il mento abbandonato sulla mano, la mazza rossa poggiata contro il bracciolo. Con la mano libera arraffava dei chicchi d'uva da una ciotola di legno, li stringeva tra le dita e se li portava alla bocca, succhiandone la polpa e gettando via la buccia. Dall'altra parte del campo, Hreidmar, avvolto in un mantello di pelle d'orso, si tormentava la barba e guardava torvo il campo di battaglia.
Hurt entrò nell'arena con un'armatura azzurra, stringendo in mano un gladio di bronzo. Aveva provato altre spade, ma questa era l'unica che riuscisse a maneggiare senza che il braccio gli dolesse troppo. Dall'altro lato il suo avversario era anch'egli ricoperto da una corazza, che però era laccata di rosso. Reggeva una spada vichinga: la mostrò al pubblico e con abilità se la fece roteare nel palmo. Dalle tribune del Nidavellir esplose un'ovazione.
"Faccia meno il gradasso" mormorò Hreidmar; ma vide che Oberon si muoveva inquieto sul trono, come a voler trovare una posizione più comoda, e sorrise.
Re Nuada era stato scelto come arbitro dello scontro. Era vecchio e potente, conosceva molti Nomi e persino Oberon avrebbe avuto difficoltà a corromperlo. Osservò entrambi i contendenti con sguardo truce, e a un loro cenno abbassò il braccio e dette inizio alla gara.
Hurt si fece sotto, impacciato dalla sua armatura. Menò un fendente all’armigero rosso con tutta la forza che aveva in corpo, ma quello si limitò a sollevare la spada e a pararlo, spinse e lo fece indietreggiare. Hurt provò a girare su se stesso e a darsi forza per un colpo di lato, ma quello fece un balzo e lo evitò.
L’armigero rosso si mise in posizione di guardia, con le gambe flesse e la spada a quarantacinque gradi. Aprì la mano e gli fece cenno di avvicinarsi.
Ad Hurt parve si stesse prendendo gioco di lui; anzi, che l'intera arena lo stesse facendo. L'armatura era leggera, ma gli impacciava i movimenti; inoltre era calda, molto calda, e il detective non osava alzare la celata per timore che Hreidmar lo riconoscesse.
"Vaffanculo!" urlò, per darsi coraggio. Con la spada fendette l'aria dal basso verso l'alto, ma l’armigero rosso dovette solo spostarsi di lato. Hurt aveva il fiatone, e fu allora che il suo avversario tentò di colpirlo. Puntò alla spalla destra, ma fortunatamente lo spallaccio di Hurt deviò il colpo. La botta lo fece vacillare: il detective perse l'equilibrio e cadde in ginocchio.
L’armigero rosso non lo incalzò, e invece si fece indietro e attese che lui si rialzasse. Dal lato del Nidavellir provenivano grida di incitamento. "Colpiscilo! Uccidilo!", dicevano. Ma il loro campione sembrava non ascoltarle.
"Che gli è preso?" pensò Hurt, rimettendosi in piedi. Si fece avanti, urlando per dimenticare la propria fatica, e provò un altro fendente, che però gli venne parato. In fretta, cercando di prenderlo di sorpresa, tentò un tondo in orizzontale, ma il cavaliere parò anche quello; quindi, con la manopola chiusa a pugno, lo colpì sull'elmo facendolo vacillare. Il gladio gli cadde di mano mentre cercava di mantenere l’equilibrio.
L’armigero rosso protese una gamba in avanti, ci poggiò sopra il proprio peso e tentò un affondo. Hurt credette che fosse giunta la sua ora, ma la panziera resistette al colpo. La spada del suo avversario sgusciò dalle sue dita e cadde a terra, come se fino ad allora non l'avesse stretta nel modo giusto.
Fu un attimo, ma sufficiente. L’armigero si gettò per riprenderla, Hurt ci poggiò il piede sopra e lo colpì con un manrovescio che lo fece indietreggiare. Il detective recuperò la spada vichinga e si fece avanti: l’armigero rosso si era appena ripreso dal colpo che Hurt già gli stava premendo la lama sulla giuntura tra l'elmo e lo scollo, lì dove a proteggerlo aveva solo un collare ad ampie maglie. Avesse affondato la spada lo avrebbe di certo sgozzato.
L’armigero rosso alzò un braccio al cielo, col pugno chiuso. Quindi, con un sussulto, lo riaprì. Hurt lo lasciò andare. Nuada seguì quel gesto, e indicò con decisione il campione azzurro.
Il detective aveva vinto. Alzò la spada sopra la testa e: "Capua!" urlò, con tutto il fiato che aveva in corpo. Le Terre dell'Autunno si unirono a quel grido con le proprie ovazioni, anche se non riuscirono a capirlo. Sconfitto, ormai dimenticato da tutti, l’armigero rosso si allontanò dalla piazza e scomparve oltre le linee del Nidavellir.
Oberon si alzò, un sorriso compiaciuto stampato sul volto da elfo. Fece un passo avanti e venne trasportato accanto a Hreidmar, che si sollevò per fronteggiarlo cercando l'ascia a tentoni.
"Abbiamo vinto" disse Oberon, intrecciando e liberando le mani. "Inginocchiati e prestaci giuramento".
"Mai!" urlò il nano, afferrando l'arma e calandola su Oberon.
Con lui, anche molti dei suoi provarono ad attaccarlo. Ma il loro metallo e la loro pietra si tramutarono in polvere. Oberon si guardò attorno, alzò la mano destra e la fece ondeggiare come se stesse seguendo il suono di una musica lontana. Mormorò appena, perché nessuno lo sentisse, il Vero Nome del vento dell'ovest, che si levò spazzando via i suoi nemici.
Hreidmar lasciò cadere il manico dell'ascia e imprecò. "Non è ancora finita" disse. Guardò il cielo e, ringhiando, decollò avvolto in un turbine nero.
Oberon seguì il suo volo per un attimo, poi gli andò dietro sotto forma di turbine argenteo. I due sparirono oltre le nubi e continuarono la loro battaglia: il cielo era illuminato dai lampi ogniqualvolta si scontravano.

Nell'armeria Hurt si stava togliendo la corazza. Gli schinieri erano già a terra, nella polvere. Stava armeggiando per togliersi la scarsella, quando qualcuno sollevò la tenda e si fece avanti. Si voltò: era il suo nemico, l’armigero rosso.
Il detective scattò in piedi e gli si avvicinò.
"Che ci fai qui?" chiese, cercando di tenere bassa la voce. "Se ci vedono insieme scopriranno tutto".
L’armigero piegò la testa e non rispose.
"Ah, forse hai ragione" ammise Hurt. "Ormai saranno così ubriachi da non far più caso a noi".
Si voltò e tornò alla panca, continuando il lavoro di svestizione. "Almeno mi vuoi dire dove hai imparato a tirare di scherma?" chiese.
L’armigero aprì le braccia e si strinse nelle spalle, sempre rimanendo in silenzio.
"Liberati anche tu di quella armatura, poi ti tolgo l'incantesimo e possiamo lasciare questo posto maledetto".
Il detective sollevò la testa, chiedendosi perché l’armigero non gli rispondesse. Si voltò e "Daniel...?" chiese.
L’armigero alzò le mani e afferrò saldamente il proprio elmo, poi, con un colpo secco, se lo sfilò. Sotto il cappuccio di maglia lo stava osservando, con occhi spalancati e la bocca atteggiata a un sorriso anche più maligno del solito, Robin Goodfellow. La sorpresa fu tale che ad Hurt caddero di mano le cinghie, e rimase ad osservarlo con stupore.
"Credevi di poterci ingannare?" lo schernì il folletto. "Noi, che siamo i maestri dell'inganno?"
Il detective strinse i pugni e si sentì un nodo in gola. "Dov'è il mio cane?" chiese.
Il folletto dette un colpo di speroni a una cassa di legno e il coperchio scattò all'indietro. Ancora appesantito dall'armatura, Hurt si piegò a vedere cosa contenesse.
Daniel se ne stava disteso nella cassa, ronfando con tranquillità, ogni tanto digrignando i denti e borbottando nel sonno che, per favore, la sua padrona la smettesse di cercare di ucciderlo.
"Si sveglierà presto" gli assicurò Puck.
"Se gli avete fatto qualcosa..." disse il detective, anche se sapeva che quelle parole dovevano suonare sciocche.
Puck scoppiò a ridere. "Devo dire che era un buon piano, il tuo" ammise. "Suscitare una guerra e poi proporti come campione di entrambe le fazioni. Saresti stato tu a decidere chi avrebbe vinto, vero?"
Hurt lo guardò di sottecchi, non sapendo cosa aspettarsi da lui.
"Quando Oberon lo ha scoperto ne è rimasto così divertito! Non faceva che parlarne". Puck si chinò sul detective, abbracciandolo con affettazione. "Ma non potevamo fidarci di te, capisci? Così mi ha mandato per assicurarsi che tu stessi dalla nostra parte". Si rialzò e batté le mani. "E, devo dire, da come ti battevi pareva proprio di no!"
Hurt non si scompose. "Cosa ci farete ora?"
Il folletto strabuzzò gli occhi. "Ma ti ricompenseremo, che diamine!" rispose. "Grazie a te Oberon ha il controllo del Nidavellir e Hreidmar è in esilio". Si voltò e, saltellando nonostante la corazza, fece per uscire dalla tenda. "Tutto è andato nel migliore dei modi" sussurrò prima di sparire.
Hurt rimase ancora lì, in silenzio, passando una mano tremante a carezzare il collo di Daniel. Deglutì, cercando di calmarsi, e per tenersi occupato si accese un'altra sigaretta.
"Tutto è andato nel migliore dei modi" ripeté, come in trance.


Epilogo

Ormai era passata una settimana da quando Hurt e Daniel avevano fatto ritorno in Irlanda. Ogni sera avevano posto sul davanzale della finestra una ciotola di pane e latte, rispettando l'impegno che avevano preso con Capra di Montagna. Anche Oberon aveva mantenuto la sua parola: sull'avambraccio del detective era stato impresso il sigillo del re, a significare che sarebbe stato sempre il benvenuto a Faerie, e che tutti i suoi vassalli gli avrebbero dovuto offrire protezione. Ciononostante aveva chiarito che non avrebbe mosso guerra alla Dama Grigia, né per lui né per altri. Il detective aveva imprecato a bassa voce: non era quello che aveva sperato, ma era sempre meglio di niente.

Prima di tornare in America, c'era ancora un debito da saldare. Hurt parcheggiò la macchina nel centro di Sligo e si diresse verso un palazzo d'angolo, suonò il campanello e si mise ad aspettare davanti alla telecamera. Passarono alcuni minuti ma lui rimase fermo, senza dar segno di volersene andare. All'improvviso una spia lo avvisò che qualcuno aveva finalmente alzato il citofono.
"Arrivo" disse una voce distorta dall'elettronica.
Hurt annuì e si spostò di alcuni passi dall'ingresso.
Myriam aprì la porta, uscì a braccia conserte e rimase sotto il portico. Squadrò Hurt dall'alto in basso, invitandolo a parlare. Indossava un maglione grigio a collo alto, e i riccioli rossi le pendevano scomposti sulle spalle.
"Mi spiace" cominciò il detective, prendendo il coraggio a due mani. "So che non mi sono fatto sentire per..."
"Non hai nulla di cui scusarti. Infatti non hai fatto nulla di male".
"Ascolta. Può darsi che io ti abbia usata, anche se non..." Hurt si interruppe, tentennò, non potendo rivelare per cosa l'avesse fatto. "Comunque ti ho ferita. Mi credi se ti dico che mi spiace?"
"Voi americani siete fatti così, no?" chiese Myriam con un gelido sorriso. "Andate dove volete e vi prendete quello che volete, senza pensare alle conseguenze".
Hurt si incupì e piegò la testa. "Non so per gli americani, ma su di me credo tu abbia ragione" ammise. Non seppe come continuare e rimase in silenzio, sentendosi gli occhi di lei addosso. Non era così che aveva sperato che andassero le cose.
In quel momento Daniel riuscì a sbloccare la sicura e a scendere dalla Toyota. Con la testa spinse la gamba di Hurt, avvisandolo che avrebbero dovuto muoversi se volevano prendere l'aereo.
"Quindi c'è davvero un cane" disse Myriam.
"Sì, se vogliamo chiamarlo cane" rispose Hurt, lieto di avere qualcosa da dirle. "Saluta, Daniel".
Daniel si sedette sul marciapiede e iniziò a scodinzolare. Per quanto Myriam cercasse di rimanere seria, non riuscì a trattenersi dal sorridere. "Mi piacciono i cani" disse.
"Questo è ben addestrato".
Myriam sbuffò, poi abbozzò un sorriso. "Senti, non ne parliamo più, ok?"
"Non avrei voluto farti del male" insistette il detective.
"Come se io non avessi mai fatto del male a nessuno. Non avevi alcun dovere nei miei confronti".
"Forse sì, invece".
"Certo che ce l'avevi". La ragazza si strinse nelle spalle. "Ma raramente le cose vanno come dovrebbero".
"Questo non mi scusa" osservò lui, cortesemente, accennando un timido sorriso.
Myriam lo studiò, cercando di capire se la stesse prendendo in giro. Decise per il no e sorrise a sua volta. "Almeno ti è piaciuta l'Irlanda?"
"Sì. Non è la prima volta che la visito".
"E l'altra volta perché sei venuto?"
"Per cercare qualcuno". Hurt non aveva più intenzione di mentirle, ma non per questo doveva dirle tutta la verità.
Ma Myriam abbassò lo sguardo. "Una donna?"
Lui si morse le labbra e annuì.
"E ora lei è...?" L'espressione sul suo volto era indecifrabile.
"Non mi è mai riuscito di trovarla".
Ti somigliava, pensò. Avevate gli stessi capelli. Ma questo non lo disse. "Ora devo andare" disse invece. La abbracciò, stringendola ai fianchi, poi le diede un bacio sulla guancia e si staccò. Si infilò in macchina e le fece un cenno con la mano.
"Ciao" disse la ragazza.
Il detective non le rispose, ma Daniel abbaiò. I due si allontanarono sulla strada lasciandola sola. Lei rientrò e chiuse il portone.
Ci mise alcuni istanti per rendersi conto che Hurt, abbracciandola, le aveva infilato qualcosa in tasca. Tirò fuori una lettera e se la rigirò tra le dita. Sulla busta c'era scritto, in brutta calligrafia: "Non ti ho ancora detto che trucco ho usato".
Myriam sorrise, pensierosa, poi strappò la busta e spiegò il foglio che conteneva. Gli dette una rapida occhiata e contrasse le labbra. Appallottolò la lettera, la lasciò cadere sul tappeto e si mise a guardare fuori dalla finestra, quella che dava sull'angolo.
Sopra di lei si stendeva il cielo d'Irlanda, e sotto di lei la sua terra magica. Sospirò stancamente e maledisse prima gli americani e poi tutti gli uomini: quelli che pensano a una cosa sola, quelli che non combattono per la donna che amano e soprattutto quelli che non sanno fare altro che mentire.
Dimenticata sul pavimento, la lettera accartocciata si dispiegò, lasciando per un attimo intravedere la scritta blu al suo interno.
Era vera magia, diceva solamente.
Myriam sospirò una seconda volta, aprì le ante della finestra per far cambiar l'aria e cominciò a preparare la cena. Qualcuno doveva pur comportarsi da persona normale, in quel mondo di pazzi.

mercoledì 17 settembre 2014

SPECIALE 2

Jack Hurt: Le Terre dell'Autunno (Due di Tre)

[di Stefano Mazzoni]




II. Dom-Daniel

"In questo mondo ci sono due strade" disse Hurt a Daniel, il suo famiglio. "La strada del re, che stiamo percorrendo, è la strada del maschio, lo scorcio di Sole in un mondo lunare. L'altra è la strada della regina, la via della donna, ma a noi non è concesso percorrerla".
Daniel abbaiò in segno d'approvazione, ma dentro di sé si sentiva abbattuto. Ai suoi occhi la strada, maschile o femminile che fosse, pareva comunque troppo lunga, anche perché fino a quel momento non ne avevano percorso che una minima parte. "Mi vuoi dire il tuo piano, adesso?" chiese, pur non aspettandosi nulla dal detective. 
"Tra poco" rispose il detective. "Per ora sappi che sei il mio uomo-chiave".
"Be', era proprio ora che tu te ne rendessi conto".
La pianura su cui correva il sentiero era tagliata in due da un fiumiciattolo. La strada del re lo intersecava per il largo, e una stretta passerella di legno collegava tra loro le due sponde. Un uomo imponente stava in piedi su di essa: indossava pesanti abiti di pelliccia e un mezzo elmo vichingo, e nelle mani reggeva una coppia di bastoni. Pareva addormentato; tuttavia, appena i due gli furono vicini, spalancò gli occhi e iniziò a studiarli con aria bonaria.
"Voi che volete attraversare il guado" li avvertì, con una voce che pareva quella di un terremoto o di un qualche altro spiacevole fenomeno naturale. "Sappiate che per farlo dovrete prima sconfiggermi".
Hurt sospirò stancamente e si massaggiò le tempie. Era già il secondo fatato che voleva sbarrargli il passo, quel giorno. "E com'è che ti chiamano, guardiano del guado?" chiese.
"Little John" disse lui, raggiante. "E finché il mio signore Robin non dirà diversamente, io rimango a difendere il ponte".
Daniel guardò critico il letto del fiume, che era quasi inaridito. "Possiamo passarci attraverso" osservò. "Non sarà difficile".
"Potremmo farlo" ammise Hurt. "Ma non senza lasciare il sentiero". Ci rifletté un attimo, si rivolse al gigante e: "Accettiamo la sfida" rispose, con un'alzata di spalle.
Little John annuì cupo e lanciò a riva un'asta, invitando Hurt a prenderla al volo. Ma il detective si scansò e l'asta cadde a terra, rotolando fino ai suoi piedi.
"Mmh..." commentò. "Proviamo così invece". Con un unico movimento della mano estrasse il pacchetto di foglie che aveva portato dal mondo degli umani e lo puntò contro il gigante. Partì un colpo che centrò Little John in mezzo al petto. Subito Daniel si lanciò sul ponte e gli si mise tra le gambe; così sbilanciato, il gigante non poté fare altro che cadere a testa in giù nel ruscello.
Le foglie d'acero, in parte bruciate, planarono giù rivelando il loro contenuto. Hurt aveva portato a Faerie la sua Smith&Wesson.
Il detective si massaggiò la mano, appena indolenzita dal vigore del rinculo. Daniel si trovava già sull'altra riva e berciando invitò Hurt a seguirlo. Passando per il ponte il detective gettò un'occhiata a Little John, che stava seduto in modo che le acque gli lambissero le natiche. Quando i loro sguardi si incrociarono il gigante scoppiò a ridere e lo salutò con la mano.

Il detective era arrivato in vista della fortezza di Dom-Daniel, la roccaforte di Oberon Re delle Fate. L'ombra delle sue torri si stendeva per molte miglia tutt'attorno al castello. Il maschio era alto, con spesse mura color della terra bruciata.
Daniel era rimasto indietro, sulla strada del re. Hurt gli aveva illustrato il suo piano, spiegandogli anche perché in quel momento non poteva accompagnarlo.
"E allora cosa supponi io debba fare, nel frattempo?" aveva obiettato il cane.
"Non lo so". Hurt si era stretto nelle spalle. "Quello che vuoi. Ma non mangiare nulla di quello che trovi in giro. E soprattutto non dire sciocchezze" lo avvertì.
"Mi devi aver preso per qualcun altro".
Nella garitta sopraelevata stava riposando un soldato. Appena vide Hurt scattò in piedi, sbattendo la testa contro il soffitto; fece un salto di qualche metro e gli venne incontro. Era alto almeno quanto un uomo, quanto Hurt cioè; tuttavia il detective sapeva che, a dispetto delle apparenze, era molto più forte del gigante del guado. Non sarebbero bastate tutte le pallottole di questo mondo per smuoverlo, perché i suoi poteri derivavano da Oberon in persona, che era signore di quei luoghi.
La guardia indossava un busto di bronzo sopra un usbergo dello stesso materiale, e braghe larghe da saltimbanco. In mano stringeva una picca di frassino con la punta di ferro. La cosa più sorprendente di lui era però il volto: sotto un elmo a punta faceva infatti capolino il bulbo di un tulipano. Quando gli si fu avvicinato abbastanza studiò il detective con espressione annoiata - o almeno così pareva, a sforzarsi un po’ con l’immaginazione.
"Salute, soldato" esordì Hurt, alzando la mano. "Sono qui per vedere Oberon, signore di Dom-Daniel e di Avalon". Piegò la testa e gli sorrise, cercando di sembrare un tipo simpatico.
Il tulipano emise un rumore che pareva uno sbadiglio. "Mi spiace, ma non credo di poterti lasciar passare" disse, scuotendo la testa. Continuò a fissarlo con espressione assonnata, come se l'unica cosa che desiderasse fosse di tornare nella sua cabina.
Il detective accentuò ancora di più il suo sorriso e con la destra fece cenno al soldato di attendere. Si infilò una mano in tasca ed estrasse un pacchettino di carta ripiegata; se lo pose sul palmo, poi, delicatamente, lo aprì. Conteneva una ciocca di capelli rossi.
"Ho con me il talismano delle streghe d'Irlanda" spiegò il detective.
Il soldato osservò con relativo interesse i capelli, arricciò un petalo e parve dar loro un'annusatina. Infine: "Allora puoi entrare" concesse, dando le spalle ad Hurt e incamminandosi verso la guardiola. Appoggiò la picca al muro e si protese cercando di raggiungerla, ma, non riuscendoci, cominciò a saltare su una gamba sola. "Le porte si apriranno per te".
Hurt gli rivolse un cenno di ringraziamento e si avvicinò ai cancelli d'argento
"Re Oberon non c'è in questo momento" lo avvisò la guardia. "Sta conducendo una Caccia Selvaggia. Quindi stai attento a non lasciare il corridoio e a non entrare in nessuna delle stanze, almeno finché Sua Altezza non torna. Qualcuno passerà a farti compagnia".
Il detective annuì, collaborativo, si risistemò il talismano in tasca e fece il suo ingresso nella fortezza.

Avanzò nel palazzo a passo incerto, sospettoso di ogni angolo, di ogni passaggio, di ogni porta. Non poteva immaginare quali pericoli lo attendessero, e questa novità lo metteva alquanto a disagio.
Qualcosa si mosse alle sue spalle. Qualcosa che non si preoccupava di far silenzio. Il detective si portò una mano al calcio della pistola, cercando di concentrarsi su quel rumore.
"Così tu sei un uomo" constatò la cosa. "Quando me l'hanno detto non volevo crederci".
Hurt si voltò, ma non poté completare il movimento che la creatura gli era già sgusciata alle spalle.
"E cosa ci fai qui, messer umano?"
Hurt rimase fermo, teso, con le pupille girate nel tentativo di catturare i suoi movimenti.
"Vorrei parlare con Oberon" disse, temendo di apparire scortese se fosse rimasto in silenzio. La scortesia non è tollerata, a Faerie. "Avrei un affare da proporgli".
"Un affare... a Oberon delle Fate?" Il suo ospite scoppiò a ridere, una risata sguaiata e a pieni polmoni, come se non ci fosse stato nulla al mondo di più divertente. Il detective approfittò della sua distrazione per girarsi e sorprenderlo.
L'elfo che gli avevano mandato era basso, magro, ma tutto muscoli. Aveva la pelle verde e due lunghe orecchie pelose, e le mani ugualmente irsute. Indossava un farsetto viola e un cappello da notte e nient'altro. Dal tanto ridere stava piegato in due e si teneva la pancia.
"Come sono sciocchi questi mortali!" riuscì a balbettare tra le lacrime.
Hurt, vedendolo, si rilassò, e decise di attendere che le risate cessassero prima di presentarsi. Tuttavia, dato che dopo molti minuti l'elfo non dava ancora segno di voler smettere, optò per fermarle lui stesso. Si schiarì la gola e cercò di sovrastare il rumore che faceva lui. "O i miei occhi m'ingannano o tu, forma e tratto, sei quel folletto birbante che tutti chiamano Robin Goodfellow" recitò, come un bravo attore.
La creatura di colpo smise di ridere. La sua espressione era gelida come se fino ad allora avesse fatto finta, e guardò il detective con occhi iniettati di sangue. "Son proprio io quell'allegro nottambulo. Dovrei dire così, mi pare". Si sfilò il cappello e si inchinò, ma si capiva che lo stava ancora prendendo in giro.
Hurt gli sorrise, augurandosi che quello del folletto fosse solo un modo come un altro per fare amicizia. "Ho incontrato un tuo compagno al guado" disse, tanto per dire qualcosa.
"Il vecchio John?" chiese Puck con indifferenza. "Spero tu non gli abbia fatto troppo male, quando sei passato".
"Dovresti dirgli che può smettere di fare la guardia" rispose Hurt, per rimanere sul vago.
"Dovrei?" Le labbra di Puck si arricciarono fino a scomparire, lasciando scoperti i denti piccoli e numerosi da squalo. "Forse hai ragione, messer umano. Ma a volte dimentico quali sono i miei doveri". Si voltò di scatto, indicando il corridoio tutto curve dietro di lui. "Cammina con me" lo invitò.
I due non superarono alcuna porta né svoltarono, ma dopo una cinquantina di passi si trovarono su un camminamento chiuso che dava sull'esterno, come una lunga veranda costellata da trifore. Hurt dette un'occhiata al cortile e con stupore si rese conto che dovevano trovarsi al secondo piano.
"Qui capita che i percorsi si annoino, e ogni tanto si spostino" spiegò Puck con un'alzata di spalle.
Il detective serrò la mandibola, per niente a suo agio in quell'ambiente, ma non rispose. "Tu sei uno dei... cortigiani di Oberon?"
Il folletto saltellò e gonfiò il petto, pieno d'orgoglio. "Il migliore" disse. "Io sono il suo giullare e il suo consigliere. Lo faccio ridere quando dovrebbe star serio e lo rattristo quando vorrebbe un po' d'allegria".
Puck stava per aggiungere qualche altra impresa, ma in quel momento la loro conversazione venne interrotta da un nitrito che proveniva dal cortile. Il folletto saltò, si appese al davanzale della finestra più vicina e si sporse verso il giardino. Anche Hurt si avvicinò alla finestra e guardò in basso.
Un cavaliere si era fermato a ridosso delle mura, splendido in un'armatura d'argento con rifiniture d'oro. Al fianco indossava un cinturone a cui era assicurata una spada, e in testa portava un grande elmo bicornuto, con piccole feritoie per gli occhi. Il destriero su cui cavalcava era nero, con la criniera di fumo grigio, ed era bardato con una semplice gualdrappa senza sella.
Il cavaliere scese dallo stallone e gli dette una pacca sulla schiena. L'animale trottò via, senza dubbio diretto alle stalle. Hurt non si sarebbe sorpreso neppure a vederlo servirsi la biada da solo. Il cavaliere si sfilò l'elmo e se lo mise sottobraccio: da quella distanza, il detective poté vedere solo lunghi capelli biondi e la sottile barba che correva a incorniciargli il volto.
"Mio re!" urlò Puck sguaiatamente.
Oberon sollevò lo sguardo verso di lui.
"C'è qui un mortale che chiede di te!"
"Eccoci" rispose il sovrano.
La voce non proveniva dal giardino, ma dalle loro spalle. Hurt sobbalzò e si voltò di scatto, pronto a estrarre la pistola. Ma quando vide il re gettò una fugace occhiata al cortile. Alla sua destra sentì il folletto reprimere una risata.
Oberon era alto, molto più alto di chiunque Hurt avesse mai visto in vita sua. Le sue dita erano lunghe, affusolate, cariche di anelli... Le dita di un re. Eppure le unghie vi crescevano incontrollate, ricurve e appuntite, come quelle di una strega. Dimostrava all'incirca trent'anni, ma Hurt sapeva che era poco meno vecchio della Legge e della Sorellanza stessa. Del resto i fatati sono un popolo di mutaforma: chi poteva dire come sarebbe apparso da lì a qualche ora?
"Queste faccende ci annoiano" si lamentò Oberon con un accento baritonale. A sentire la sua voce, Hurt sussultò una seconda volta. La modulava e ogni volta sembrava cantasse. Dondolò sulle punte e si morse le labbra. "Mio Puck, manda via questo scocciatore e portaci una caraffa di falerno".
Il folletto si inchinò. "Se questo è il volere di Sua Maestà..."
Il detective si tastò frenetico la giacca. "Un momento! Ho qui il talismano delle streghe d'Irlanda". Estrasse la ciocca di capelli che aveva rubato a Myriam. "Questo mi dà diritto a ricevere udienza, vero?"
Oberon sollevò le folte sopracciglia bionde. "Il talismano è stato ottenuto con l'inganno o ceduto spontaneamente?" chiese.
"Fa qualche differenza?"
"Non più, ormai". Il re sventolò teatralmente una mano, quindi "Supponiamo di doverti ascoltare" concesse. "Faremo le cose per bene, allora. Nella sala delle udienze".

La sala era una camera lunga e spoglia dal soffitto altissimo. Hurt calcolò che ci sarebbero potute entrare trecento fate e starci comode. Pesanti drappeggi blu coi ricami degli stemmi di Faerie pendevano dalle finestre, impedendo al Sole di far capolino nella stanza; eppure, come ogni altra cosa lì, ogni parete sembrava riflettere una qualche misteriosa fonte di luce.
Seguendo il tappeto rosso steso a terra, Oberon si diresse al trono. Aveva uno schienale alto, foderato di velluto rosso, ed era coperto di morbidi cuscini di broccato. Si trovava su un palco all'altra estremità della sala.
"Maestà" esordì Hurt. "Alcuni dicono che Dom-Daniel sia una caverna sotto il mondo, in cui gli stregoni si riuniscono per celebrare i loro rituali... Eppure, sul mio onore, queste sono le stanze più belle che io abbia mai visto".
"Come dire che viaggiano sul dorso di un asino" disse il re, ma sembrò lo stesso compiaciuto. "Dicci in fretta perché sei qui e liberaci della tua presenza". Il sovrano coprì i tre gradini che lo separavano dal trono, si voltò e parve abbracciare tutta la sala con il suo sguardo.
"Quanti sudditi ha il mio sire?" chiese Hurt, cercando di parlare con lingua di miele, come scritto sui libri. Le fate non tollerano chi non è più che cordiale, si ripeté.
"Innumerevoli". Il re lo fissava, chiedendosi dove avrebbe voluto arrivare.
"E quanti sarebbero pronti a prendere le armi contro di te?"
Il sovrano aggrottò le sopracciglia, ma non parve preoccuparsi più del necessario. "Quasi tutti, se ne avessero la possibilità. Comunque non mi risulta che ci stiano provando in questo preciso momento".
"Con tutto il rispetto", disse Hurt, "qualcuno che ci prova c'è".
Oberon posò il cimiero sul treppiede accanto al trono e si lasciò sprofondare tra i cuscini di broccato. Parve soppesare attentamente quelle parole. Si sporse sullo scranno, poggiando un gomito sulla coscia e indicando con il braccio libero il petto di Hurt, invitandolo a proseguire.
"Ci sono fatati che non hanno ancora prestato giuramento a Oberon" osservò Hurt con una punta di malizia.
"Poche e sparute terre".
"Io non direi così". Il detective, come a sottolineare le sue parole, si mise a contare sulle dita. "Tir Tainigre, la valle che il Re Pallido ha conquistato al Drago; il Giardino della Dama Grigia, col suo esercito di mocciosi..." Sollevò gli occhi a incontrare quelli di Oberon, che erano azzurri come il cielo d'Irlanda e che per un attimo gli dettero una sensazione di vertigine. "...e il Nidavellir" concluse in tono grave.
Oberon si carezzò la guancia con l'unghia dell'indice e di nuovo inarcò un sopracciglio. Era un gesto molto d’effetto, e sicuramente doveva farlo spesso. "Hreidmar, intendi?"
Hurt annuì. "So per certo che sta ammassando elfi scuri e nani nei palazzi che si è comprato con l'oro di Andvari. Vuole marciare su Dom-Daniel e sulle Terre dell'Autunno, dove l'aria è tiepida e il raccolto è continuo... Dicono si sia stancato dei ghiacci eterni".
Re Oberon scattò in piedi, sporgendosi sulla punta dei piedi come una ballerina e inarcando la schiena, facendo scricchiolare tutta la sua bella armatura. "E tutto questo tu come lo sai, mortale?"
"Nel mio mondo sono un mercenario" spiegò Hurt. "Nel mio ultimo lavoro ho avuto a che fare con uno gnomo del Nidavellir. Mi ha offerto molte cose in cambio della libertà, ma la più interessante di tutte è stata quest'informazione".
Oberon annuì, piano. "Se quello che dici è vero" si chiese, passandosi una mano tra i capelli e l'altra sul pizzetto, "comunque non ti riguarda. Perché sei venuto a comunicarcelo?"
"Perché ho la soluzione ai tuoi problemi" disse.
"Sul serio?"
"Sul serio".
"E cosa ti aspetteresti da Dom-Daniel in cambio del tuo aiuto?"
Se possibile il sorriso di Hurt si fece ancora più esitante, e il suo dente d'oro scintillò alla luce magica del castello. "Solo protezione".
"E tu...?" Il sovrano sventolò una mano in direzione del detective.
"Mi impegno a parlamentare con Hreidmar. Gli farò ritirare le truppe. Questa guerra finirà prima ancora di iniziare".
Oberon si grattò il mento, scettico. Però, dopo un attimo "Sia!" decise. "Quantomeno sarà divertente vedere che ci provi".
Hurt si piegò in un breve inchino. Metà del suo piano aveva già avuto successo. "Ora cosa hai intenzione di fare?" chiese al re.
Oberon era sceso dagli scalini e si stava dirigendo verso le porte della sala; ma si fermò e fece una piroetta per tornare a guardare il detective. "Chiameremo a raccolta i vessilli di guerra" rispose. "Solo… nell’improbabile caso che tu fallissi".
"Improbabile" si sentì di sottolineare Hurt.
"Nuada e le tribù del corvo e il Duca della Menzogna, quel grosso rospo" continuò il re. "E magari anche le truppe della nostra dolce mogliettina".
"Sarà senza dubbio felice di aiutarti".
"Come di baciare un somaro" gli confermò il re. Poi si fermò e parve riflettere. "A tal proposito" continuò, "potremmo raccontarti certe storie..."
"A guerra conclusa, maestà" gli assicurò Hurt. "A guerra conclusa".


III. Il Nidavellir

Hurt entrò nella Sala Grande del castello che si ergeva nel Nidavellir. I sei ampi camini della stanza erano accesi per scaldare le pareti di pietra e gli alti soffitti a sesto acuto. Per il lungo della sala erano disposte cinque tavolate su cui gli elfi e i nani si stavano gustando le portate di cinghiale e birra.
Le guardie alla porta abbassarono le asce bipenne e gli sbarrarono il cammino. Una lama gli sfiorò il collo, premette e una goccia di sangue le scivolò lungo il filo. Hurt non disse una parola, ma si portò il palmo della mano a massaggiarsi il taglio.
Dall'altra parte della stanza Hreidmar stava seduto sul suo trono, intento a divorare un cosciotto e lasciando che il grasso gli colasse sulla barba. Accanto a lui un'elfa scura dalle lunghe basette reggeva il suo boccale. Quando si accorse dell'ospite, il re gettò il cosciotto ai lupi e si alzò per guardarlo meglio.
Era alto per essere un nano, pensò Hurt, ma troppo basso per essere un elfo. Aveva una lunga barba rossiccia che gli arrivava fino al petto, e indossava una tunica di lana grezza al cui centro era ricamata una runa di protezione, un triangolo rosso circondato dai viticci.
Il re fece cenno alle guardie che lo portassero da lui. Il rumore dei piatti, dei boccali sollevati e delle risa cessarono non appena Hurt venne fatto inginocchiare davanti al trono.
"Chi sei?" chiese il re con voce rude. "E come hai fatto ad arrivare qui?"
Hurt si rialzò ed estrasse la pistola. Una delle guardie fece per scattare, ma il detective la teneva per la canna, non per il calcio.
"Ho ucciso le tue guardie. Io porto il bastone del tuono" disse, piegando la testa per osservare la reazione della sala.
"Ah" commentò Hreidmar, per nulla impressionato. "Una Smit&Wesson di Midgard. Non male, come pistola".
"Tipico" bofonchiò Hurt, sbuffando e nascondendola sotto la giacca.
"Non mi hai ancora detto perché sei venuto a disturbarci" insistette il re. Qualcuno, da qualche parte nel fondo della sala, urlò: "Tagliagli la testa e poi chiedilo a lei!" Tutti risero.
Hredimar scrutò nella stanza per vedere chi avesse parlato, poi riportò lo sguardo su Hurt e sollevò un sopracciglio. "Quell'elfo non ha tutti i torti" disse. "Le teste si mostrano più cedevoli quando non sono attaccate al loro corpo".
Hurt deglutì, sentendo un formicolio alla base del collo ma imponendosi di non allentarsi la camicia. Per un attimo si pentì di essere venuto fin lì. Ma, si disse, era inutile piangere sul demone evocato. "Io..." cominciò, cercando le parole adatte. "Io sono un mago".
"Un mago?" Hreidmar volse il capo per tutta la lunghezza della sala. "Un manipolatore del Fato?" La camera si riempì di risate a stento soffocate. "Be', qui sei in presenza dei Signori del Fato, piccolo mortale" gli disse, con espressione severa, guardandolo dall'alto in basso. "E i venti della nostra magia sono più grezzi e forti della tua".
Hurt incassò il colpo e accennò un mezzo inchino. "Tuttavia anche voi sottostate alla Legge e alla Sorellanza" osservò.
Il re socchiuse gli occhi ed emise un suono irritato, soffiando dalle narici. "Sì" ammise, "anche se noi le chiamiamo le Tre Streghe o le Sorelle del Wyrd... e non siamo contenti di dover loro obbedienza".
"I fatati non sono fatti per l'obbedienza" concordò il detective. "Tuttavia seguite i vostri re".
Un elfo allampanato, con lunghi capelli unti, si alzò dal centro della tavola di mezzo levando un boccale verso il trono. "Solo quelli che ci scegliamo!" urlò, rovesciando un po' di birra sul suo vicino. All'osservazione fece seguito uno scroscio di applausi.
Hurt si guardò pazientemente attorno, attendendo che il rumore cessasse. "Anche re Oberon?" chiese, con finta noncuranza.
Gli occhi di Hreidmer si spalancarono e il suo volto divenne rosso. Hurt capì di aver toccato il tasto giusto. "Lui non è il nostro re!" urlò. "Il Nidavellir non è tenuto all'obbedienza di nessuno!"
"Eppure..." Hurt alzò la voce in modo che tutti, nella Sala Grande, potessero sentire quello che aveva da dire. "So da fonte sicura che Oberon sta ammassando un esercito a Dom-Daniel. Una forza che userà per sottomettere chi non gli ha giurato obbedienza".
Un brusio preoccupato attraversò la sala.
"Perché dovremo fidarci di te?" chiese Hreidmar, socchiudendo un occhio.
Il detective piegò la testa e accostò le labbra. "Oberon non sta agendo in segreto. Mandate un corvo o due e potranno confermarvi quello che vi ho appena detto".
Un nano barbuto saltò su uno dei tavoli centrali, roteando sopra la testa un pesante martello da guerra. "Allora uccidiamoli tutti, quei mangiafoglie!" urlò.
Altri ancora, in preda all'entusiasmo, si alzarono e urlarono di prendere le armi e marciare contro Dom-Daniel e Avalon, ma Hreidmar alzò una mano e li riportò al silenzio.
"Se questo è vero, e non dico che lo sia... Tu perché ce lo stai dicendo?" chiese.
Il detective prese il coraggio a due mani. "Voglio combattere con voi" mentì. "Anzi, combattere per voi". Si gettò uno sguardo attorno, cercando consensi. "Se mi darete ventiquattro ore, vi farò vincere questa guerra senza colpo ferire".
Hreidmar e i suoi si scrutarono tra loro e cominciarono a sbuffare. "In cambio di... cosa?" chiese il re.
"Protezione" rispose Hurt con falsa sicurezza. "E denaro: l'oro di Andvari. I suoi anelli magici continuano a riprodursi, vero? Che un singolo forziere venga assegnato a me".
"È un prezzo onesto" ammise Hreidmar. "Ma perché dovremmo accettare la tua offerta?"
Hurt temeva quella domanda, a cui poteva dare una sola risposta. Era essenziale essere accettato da Hreidmar perché il suo piano funzionasse. Deglutì, strinse le mani a pugno, e parlò. "Mettimi alla prova" disse, appellandosi alle antiche tradizioni. "Ti dimostrerò quanto valgo".
Hreidmar aggrottò le sopracciglia e, sotto la barba rossa, accennò a un sorriso. "Credo che faremo come dici tu" disse.
Il pavimento ai piedi della pedana sembrava solido; eppure, a un cenno del re, le lastre si aprirono e precipitarono Hurt in uno scantinato. Il detective cadde su un mucchio di paglia bagnata, rotolò sul pavimento e si rimise in piedi. Si dette delle pacche sul vestito per liberarsi della paglia che gli era rimasta addosso.
"Una botola che dà su una segreta" commentò, con scarso entusiasmo. "Perché non c'è mai una botola che dia su una spiaggia?"
Sentì un rumore di catenacci che scorrevano e sollevò lo sguardo. Una grata era scivolata a chiudere il soffitto; attorno a essa Hreidmar e i suoi si accalcavano per osservarlo.
Hurt non disse nulla. Riabbassò lo sguardo, preparandosi al peggio. Quella era la prova: se l'avesse superata, secondo la Legge li avrebbe avuti tutti in pugno. Non avrebbero potuto fare altro che accettare il suo accordo.
Il detective sentì un tonfo, poi un altro; poi uno splash, come se qualcosa di enorme fosse caduto in una pozzanghera. Si passò una mano a scostarsi dal viso una ciocca di capelli e sentì la gola secca. Tuttavia non riuscì a deglutire e per liberarsi la bocca dovette sputare.
Nel circolo di luce delle torce apparvero un ventre prominente, grinzoso e grigio come la pietra, e una clava che sembrava ricavata da un tronco d'albero. Un altro paio di passi e un gigante gobbo dalle orecchie a sventola fece la sua apparizione. Una lunga coda si attorcigliava attorno alla sua gamba destra, poi si liberava e ricominciava l'operazione con l'altra.
"Qroth è un troll d'Islanda" spiegò Hreidmar. "Se ti sconfigge, ti mangerà".
"Ma se lo sconfiggo io mi è concessa un’insalata?" chiese Hurt.
Hreidmar sorrise e non aggiunse altro.
Il detective si concentrò sul suo avversario. Cercò di ricordare una scena analoga de Il Ritorno dello Jedi, ma poi gli venne in mente che lui, la Forza, non ce l’aveva, e allora estrasse la pistola e gli sparò due colpi al basso ventre. Andarono entrambi a segno, penetrando nella carne, ma l'unico effetto che ebbero fu di far infuriare il troll. Qroth urlò, sollevò la mazza e la calò su Hurt; il detective si raggomitolò e rotolò di lato, ma nel movimento perse l’arma. La mazza si abbatté sul pavimento, facendo tremare le pareti. Hurt si rimise in piedi e girò attorno a Qroth, che di contro sembrava un po' legato nei movimenti. Qualcosa brillò a terra, alla luce delle fiaccole: la catena con cui lo tenevano fermo quando non serviva. Un'estremità era libera, ma l'altra era ancora legata al polso del mostro; la afferrò, se la avvolse tra spalla e gomito e poi tirò, cercando di fargli perdere l'equilibro.
Il braccio di Qroth accompagnò il gesto, ma quando andò ad appoggiarsi sul suo inguine, lui tirò dall'altra parte. Hurt venne gettato a terra e lasciò andare la catena prima di trovarsi sotto le sue gambe.
Uno scoppio di risa e insulti irruppe dalla grata, mentre gli elfi e i nani commentavano lo scontro.
"Mossa stupida" ammise il detective, obbligandosi a non ascoltare le loro battute. Si rese conto di essere caduto vicino a qualcosa. Con la coda dell'occhio vide vecchie ossa ammucchiate ai lati della segreta, alcune ancora vestite di pesanti armature. Afferrò l'oggetto che aveva a fianco: una sarissa dall'asta spezzata, ma lunga ancora tre metri buoni.
Qroth si era girato e lo stava cercando con lo sguardo. Hurt si risollevò e, con tutta la forza che aveva in corpo, provò a infilzarlo. Puntò al petto, ma la sua spessa pelle fece scivolare la lancia che finì per perforarlo di lato, tra le costole. La bestia urlò e lasciò cadere la mazza, poi indietreggiò. Hurt non riuscì a disincastrare l'arma, e dovette abbandonarla. Ma prima che riuscisse a pensare a qualcosa il mostro si era fatto avanti, lo aveva afferrato per i fianchi e lo aveva sollevato per aria. Contava di fargli disegnare un arco sopra la testa e schiacciarlo sul pavimento; ma Hurt riuscì ad afferrare una delle sbarre della grata e a rimanervi appeso. Quando Qroth calò la mano, urlando, il colpo andò a vuoto: lì non c'era più nessuno. Si guardò attorno, cercando di capire dove fosse finito il suo cadavere.
Hurt sospirò. Non avrebbe potuto rimanere a lungo appeso: sentiva già le braccia che gli si indolenzivano. Così si lasciò cadere sulle spalle del troll, serrandogli le gambe attorno al collo.
Il mostro urlò e corse in cerchio, muovendosi nel tentativo di afferrare il detective. Schiamazzi provenivano dalla Sala Grande, urla di cortigiani che invitavano Hurt a scendere e ad affrontare Qroth faccia a faccia. Non c'era pericolo: il detective sapeva che, se lo avesse fatto, non sarebbe durato un altro minuto. Doveva giocare sporco.
Rese intangibile la mano, lasciando che il guanto gli scivolasse via, e la immerse in profondità nel cranio del troll. All'improvviso il mostro si fermò, balbettando in una lingua sconosciuta. Le labbra gli tremarono, gli occhi gli divennero strabici e le gambe smisero di reggerlo... cadde a terra. Hurt fece appena in tempo a liberarsi per non finire schiacciato lui stesso, e si piegò su di lui.
Alzò il capo in direzione del soffitto. Oltre la grata, nella Sala Grande, nessuno parlava più.
"Ti accetto come nostro inviato" disse Hreidmar, sebbene dalla sua voce trasparisse la delusione. "Vai e facci vincere questa guerra".




L'ULTIMO EPISODIO TRA SETTE GIORNI!

mercoledì 10 settembre 2014

SPECIALE 1

Le Terre dell'Autunno (Uno di Tre)

[di Stefano Mazzoni]




I. Terra magica

Daniel sollevò il muso e fiutò l'aria. Abbaiò e fece un salto in mezzo ai cespugli, oltre i sassi che delimitavano il sentiero, ma il fringuello che aveva puntato volò via prima che potesse chiuderci le fauci attorno. I rami gli graffiavano le zampe, ma lui ringhiò ancora in direzione dell'uccello, allegro come non lo era da molti mesi. Sporse la testa sul sentiero e, per dimostrarlo, abbaiò in direzione di Hurt.
"Non siamo qui per giocare" lo rimproverò il detective, gli stivali inzaccherati di fango, mentre arrancava sullo stretto sentiero montano. Le gambe gli dolevano e anche i polmoni, e sotto il sole faceva fatica a tenere sollevata la testa. Lui sì che si stava divertendo. 
"Che ti è successo, capo?" chiese il cane ridacchiando. "Una volta eri rock".
"Forse lo ero" tagliò corto quello. Non aveva neppure il fiato per iniziare una discussione. "Ma abbiamo altro a cui pensare. Dovremmo essere quasi arrivati". Hurt sollevò gli occhi e osservò la posizione del sole, poi, non riuscendo a farla combaciare con i dati sulla mappa digitale, sospirò, spense il cellulare e lo ripose nella tasca della giacca. "È da queste parti, comunque".
"Non potevi comprarti un navigatore?" chiese Daniel, seguendo con gli occhi il volo di una farfalla.
Hurt si strinse nelle spalle e alzò le mani, continuando a camminare. "In questo Paese dimenticato da Dio?"
"Siamo in Irlanda, non in Antartide" disse il cane. "Parlano la nostra lingua".
"Ma hanno uno strano accento".
"Sono le isole britanniche. Siamo noi quelli con lo strano accento".
Hurt sbuffò. "Comunque siamo arrivati". Saltò fuori dal sentiero, oltre un cespuglio secco, e sbucò in una radura. Il prato era giallo e marrone, bruciato dal gran caldo di quei giorni, ma al centro dello spiazzo, delimitato da alcuni sassi, c'era ancora un piccolo circolo di erba verde.
"Un Cerchio delle Fate" disse Hurt.
Daniel si fece avanti e ne annusò i confini, prestando attenzione a non finirci dentro. "Sembra proprio" confermò.
Qualcosa si mosse tra le fronde, e Daniel ringhiò, ma dai cespugli non uscì nulla. Hurt si piegò su di lui e lo grattò dietro un orecchio. "Buono", disse. "È normale che ci sia qualche animale".
Daniel sbuffò e si mise seduto. "Adesso che facciamo?" chiese, senza smettere di tener d'occhio i cespugli.
"Ora che l'abbiamo trovato" disse il detective. "Lasciamo un segno sulla mulattiera e torniamo in albergo". Fece dietrofront, si rimise sul sentiero e cominciò la lenta discesa. Daniel lo guardò un attimo, chiedendosi il perché di quella scalata; ma si distrasse quando una mosca gli passò davanti e cominciò a rincorrerla.

Il detective era seduto al bancone di un pub a Sligo. Daniel ronfava ai suoi piedi, sul pavimento bagnato. Chiamò il barista e chiese un'altra birra.
"Subito, mister" rispose lui. "In America non ne bevete di così buona, eh?"
"Al confronto sembra piscio" fu d'accordo il detective. Non che sentisse troppo la differenza, dopo il quarto bicchiere.
Daniel si svegliò e gli tirò l'orlo dei pantaloni. "Andiamo, capo?" chiese in un mugugno. "Ho sonno".
Hurt si portò l'indice alle labbra e gli fece cenno di starsene zitto. Poi scrollò la gamba finché il cane non si staccò.
"Vai pure a farti un giro" disse. "Ci vediamo in albergo. Ma la chiave ce l'ho io".
Il cane si alzò sulle quattro zampe, sbadigliò e trottò via. Aspettò che qualcuno aprisse la porta, poi si infilò tra le ante e uscì.
La persona che gli aveva aperto si scansò per farlo passare, ridacchiando; poi si guardò attorno nel locale e, gira e rigira, finì per sedersi proprio accanto ad Hurt. Il detective si voltò appena, scoccandole un'occhiata in tralice, poi tornò alla sua birra.
Aggrottò le sopracciglia, come avesse appena realizzato qualcosa, mise giù il bicchiere e si voltò a guardarla meglio.
La ragazza non era molto alta, ma era difficile giudicarla da seduta. Aveva folti capelli di un rosso brillante, pettinati e raccolti in una treccia, e lentiggini sul naso e le guance. Indossava un vestito a fiori un po' sbiadito, che le era risalito sopra le ginocchia quando si era seduta.
La ragazza si sentì gli occhi di Hurt addosso e si voltò per sorridergli. "Ehi, cowboy" disse, come se in fondo trovasse la cosa divertente.
"È stata... solo una fase" bofonchiò Hurt. Si girò, piegò la testa sul bancone e maledicendosi tornò a concentrarsi sul bicchiere.
La ragazza strabuzzò gli occhi, come pensasse di non aver capito, poi si voltò e sembrò smettere di fare caso a lui. Il detective si passò una mano tra i capelli, si diede uno scappellotto sulla nuca e si impose di rimanere lucido. Si raddrizzò sulla sedia e tornò a guardare la ragazza. O la va la spacca, si ripeté.
"Scusa", le disse. "Ho bevuto troppo".
"Non fa niente" rispose lei, facendogli un altro sorriso. Aveva i denti bianchi, regolari, e i suoi occhi erano di uno strano blu elettrico. "Capita a chi non è abituato".
Hurt piegò la testa e accettò la battuta. "Mi chiamo Jack" si presentò, porgendole la mano.
Dopo un attimo di esitazione lei gliela strinse. "Myriam" disse. "Mi chiamo Myriam".
"Un bel nome" disse Hurt senza pensarci. "Posso offrirti qualcosa, Myriam?"
La donna lo squadrò e arricciò le labbra. "Grazie, ma no grazie" rispose. "Credo sia meglio che tu vada a dormire".
La mascella di Hurt si contrasse mentre lei si girava dall'altra parte. "Va bene" disse. "Ma prima guarda una cosa".
Myriam sbuffò scherzosamente e si voltò di nuovo. Per un attimo i loro occhi si incrociarono. Hurt era troppo ubriaco per potersi concentrare, ma quello sguardo gli fu sufficiente: alzò la mano col palmo rivolto verso l'alto, la strinse e la riaprì. Myriam vide sette luci colorate scivolare e rincorrersi tra le dita di lui, poi saltare in alto e scoppiare come fuochi d'artificio. Hurt si augurò bastasse, perché in quel momento non poteva fare altro.
Per un attimo ancora Myriam gli fissò la mano, quindi sollevò la testa e rimase a osservarlo a bocca aperta. "Come hai fatto?" gli chiese.
Hurt assunse un’espressione compiaciuta. "Magia" minimizzò, con una scrollata di spalle.
"Giuro, è la cosa più strana che io abbia mai visto fare a un ubriaco" disse la ragazza. "Qual è il trucco?"
"Ti dico come ho fatto" le promise. "Se ti lasci offrire qualcosa".
Myriam gli lanciò un'occhiataccia. "Non siamo in un film, mister".
"Voglio tornare a casa e vantarmi di avere offerto da bere a una bella irlandese" le assicurò lui. "Sai come sono i ragazzi, quando si incontrano. Tutto qui".
La ragazza abbassò lo sguardo e parve meditare un attimo; poi lo risollevò e rise. "Se è così, accetto" disse, e ordinò un’altra birra.

La sveglia segnava pochi minuti dalla mezzanotte. Myriam dormiva profondamente, prona sotto le coperte, e i suoi  riccioli rossi le ricadevano sulle spalle. Hurt si alzò, cercando di fare meno rumore possibile, senza accendere la luce o mettersi le scarpe, e raggiunse la sedia su cui aveva poggiato i vestiti. Frugò nella tasca sinistra della giacca, poi nella destra, ed estrasse un paio di forbici.
Poggiò un ginocchio sul letto, lentamente perché le doghe non cigolassero, e si chinò su di lei. Con un colpo deciso le tagliò una ciocca e se la nascose nella giacca.
Myriam si svegliò. "Che succede?" chiese, con la voce ancora impastata dal sonno.
"Nulla" disse Hurt, e si piegò a baciarle la schiena e il collo. Indugiò per un attimo, poi: "Torna a dormire" disse.
La ragazza non lo ascoltò. Tese un braccio e a tentoni riuscì a trovare l'interruttore della luce. Quando vide che Hurt saltellava cercando di infilarsi le mutande arricciò il naso e sorrise. "Che stai facendo?" insistette. Si girò supina e si sollevò. Il copriletto le scivolò di dosso, rivelando due morbidi seni e, più giù, il ventre piatto, che disegnava una curva fino all'altezza dei fianchi. Una sottile striscia di lentiggini le correva sul petto, lì dove il reggiseno lasciava posto alla pelle e dove il sole l'aveva abbronzata più intensamente. Hurt appoggiò a terra il piede e sospirò, sovrappensiero. 
"Dove vai?" chiese la donna, tirandosi la coperta fino al collo.
"Il mio cane" bofonchiò Hurt, tornando a vestirsi. "L'ho lasciato fuori dall'albergo. Sono passate delle ore, ormai".
Myriam tentennò un attimo e distolse lo sguardo. Non disse nulla, ma le sue labbra mimarono un vaffanculo.
"Sul serio" continuò Hurt, cercando di giustificarsi. "Daniel è un cane... difficile. La sua vecchia padrona lo maltrattava". Riuscì a chiudersi la patta e afferrò la giacca. "Torno presto" le assicurò. "Be', prima o poi. Giuro".
Vedendo che Myriam non gli rispondeva e che, anzi, continuava a fissare la parete, pensò di dover aggiungere qualcosa. Tuttavia desistette, afferrò il cellulare e uscì dalla camera. Si ripromise che avrebbe cercato di sistemare le cose dopo, quando tutto fosse finito, se fosse stato ancora vivo.

Hurt parcheggiò la Toyota a noleggio sul ciglio della strada. Aprì il cruscotto e prese un flacone di aspirine... poi ne mise in bocca un paio e le fece andar giù con un sorso di whiskey.
"Pessima mossa" commentò Daniel, che era seduto sul sedile accanto al suo.
"Non accetto consigli da te".
Daniel rise, abbaiò e si gettò fuori dalla macchina. Hurt lo seguì e chinandoglisi accanto gli slacciò il collare. "Dove andiamo il ferro della piastrina non è il benvenuto" disse. Lo gettò sul sedile della macchina, poi fece lo stesso con le chiavi.
"Non è un po' stupido?" chiese il cane.
"Almeno la polizia non avrà problemi a rimuoverla" disse il detective. "Sperando sia la polizia" aggiunse. Daniel scosse il muso e Hurt decise di recuperare le chiavi e di sotterrarle a lato del sentiero, sotto un sempreverde.
Tornò alla macchina e armeggiò col sedile posteriore. Accese una torcia e la lanciò a Daniel, che saltò e la afferrò al volo.
"Hahà hihhihihe hohahe ha hahuha" osservò il cane.
"Cosa?"
Daniel poggiò a terra la torcia e ripeté. "Sarà difficile trovare la radura".
"Per questo l'abbiamo cercata stamattina, col sole" disse il detective. Prese un pacchetto verde e se lo infilò nei pantaloni, poi recuperò una seconda torcia.
"Cos'era quella cosa?" chiese Daniel.
"Foglie d'acero e trifogli intrecciati" spiegò Hurt. "Ho bisogno di... di portare qualcosa oltre il confine". Fece segno con la torcia verso il sentiero, che iniziava da lì e si inerpicava fino in cima al monte. Daniel recuperò la sua pila e iniziarono la scalata.

Erano arrivati all'altezza giusta: Hurt riconobbe il segno che aveva lasciato sul sentiero. Fece per superare i cespugli, ma un ringhio di Daniel lo avvertì di fermarsi.
Qualcosa si muoveva, in basso, tra le fronde. Hurt puntò il fascio di luce e vide un serpente strisciare verso di loro, sibilando, poi fermarsi e sollevare la testa per studiarli meglio.
"Questo luogo ha un guardiano" disse Hurt in un sussurro. "Avrei dovuto immaginarlo". Fece cenno a Daniel di star giù, poi si rivolse al serpente.
"Messer Vipera" disse, nel tono più cordiale che gli riuscì, accennando un mezz'inchino. "Mi spiace averti disturbata. Chiedo il permesso di entrare nella radura, per me e il mio famiglio".
La vipera lasciò saettare la lingua fuori dalla bocca, si sollevò ancora di più e iniziò a ondeggiare minacciosa. "E perché mai dovrei farti passare? Io che ho ricevuto l'incarico di difendere questo luogo?"
La sua voce era quella del vento e del frusciare delle foglie. Apparentemente, un sacco di cose avevano quella voce.
Hurt sollevò la mano con il palmo rivolto verso l'esterno, in segno di pace. "Non è questo il giorno del commiato?" chiese. "Non è questo il giorno in cui la Prima e la Seconda Razza si incontrano per piangere Cuchulain?" Sorrise tra sé, perché sapeva di avere ragione.
Il serpente lo guardò, visibilmente a disagio, e se avesse potuto avrebbe sollevato un sopracciglio. "I mortali non si uniscono al pianto del Popolo" osservò. "Mai. Perché proprio voi e proprio ora?"
"I nostri tempi e i nostri motivi non sono affari che ti riguardano" disse il detective. "Ci lascerai passare o infrangerai il Patto?".
Il serpente scosse il capo e si abbassò, strisciando tra i cespugli e lasciando libero il passaggio. "Entrate pure, se volete" disse. "Buon pro vi faccia".
Hurt si girò verso Daniel e gli fece l'occhiolino. Gli indicò la radura, ma appena il cane si mise a correre il detective lo afferrò per il pelo e lo trattenne. Gli fece cenno di rimanere nascosto tra i cespugli. Quando si furono acquattati spensero le torce e aspettarono che i loro occhi si abituassero alla luce delle stelle.

Il primo arrivò qualche minuto dopo. Sbucò fuori da una macchia verde e avanzò con passo indeciso in mezzo alla radura. Era un ranocchio. Quando ebbe fatto qualche metro si alzò sulle zampe posteriori ed estrasse un bastoncino cui aveva appuntito un'estremità. Rimase lì in silenzio, aspettando gli altri.
Il secondo ad arrivare fu un tasso. Anche lui fece la sua entrata sulle quattro zampe, ma subito si alzò sulle due posteriori. Indossava un paio di pantaloni troppi grossi per lui e che continuavano a scivolargli sotto la vita. Per questo era costretto a reggerli con una mano. Si avvicinò al ranocchio e piegò il capo in cenno di saluto; il ranocchio gli rispose qualcosa, ma Hurt e Daniel erano troppo lontani per sentirlo. Comunque pareva fossero solo gentilezze di rito.
La terza e ultima ad arrivare fu una capra, che entrò nella radura già bella dritta. Indossava una tunica porpora e tra gli zoccoli reggeva un vecchio bastone nodoso. Sul naso stavano appollaiati un paio d'occhiali incrinati, rubati chissà dove e chissà quando a chissà chi.
"Se ci siamo tutti" disse la capra, con voce forte e distesa, "possiamo anche iniziare".
"Ci siamo tutti" confermò Hurt, uscendo dal suo nascondiglio. Daniel gli corse dietro. Teneva gli occhi fissi sulle creature, temendo la loro reazione.
Il ranocchio si erse in tutta la sua trascurabile altezza e spianò il bastone verso di loro, soffiando, ma la capra non parve perdere la sua flemma.
"Chi siete?" chiese.
Hurt le sorrise e fece un mezzo inchino. "Io sono Hurt, Fante di Cuori, in rappresentanza della Seconda Razza. E questi è il mio famiglio, che come potete vedere è un cane parlante". Il detective badò a non dire il Vero Nome di Daniel. "Siamo qui per piangere Cuchulain, come le nostre razze usavano fare nei tempi antichi".
Il ranocchio sbuffò e strinse più forte la lancia, il tasso si grattò dietro le orecchie e la capra belò, in tono sospettoso.
"Non mi fido!" urlò il ranocchio con voce stridula. "L'unico uomo buono è un uomo morto".
"Voi come venite chiamato, Mastro Ranocchio?" lo interruppe Hurt.
Lo scostante animale ritirò il bastone e vi si poggiò sopra con tutto il proprio peso, sollevando il mento e assumendo in tutto e per tutto un'espressione di puro orgoglio. "Io sono Ser Rospo, Cavaliere del Gracidio nominato da Sua Maestà in persona Oberon delle Fate. E questi" continuò, indicando i suoi compagni, "sono Messer Tasso e Capra di Montagna".
"Molto piacere" bofonchiò il tasso, piegandosi in un buffo inchino. Ma la capra si sistemò meglio gli occhiali sul muso e non disse nulla.
"Ora che le presentazioni sono fatte" riprese Hurt, "potremmo azzardarci a parlare d'affari?"
"Credevo foste qui per il commiato" osservò Capra di Montagna.
Hurt piegò la testa e sventolò una mano, come a voler allontanare da sé un pensiero fastidioso. "Anche. Ma non è cosa di tutti i giorni incontrare tre signori del Popolo, vero?"
Ser Rospo e Messer Tasso sorrisero, lusingati, ma la capra rimase di ghiaccio. "Se siete qui per concludere un affare fate la vostra proposta, e non perdiamo altro tempo" disse.
Il detective annuì, lentamente, e sempre lentamente si sedette sull'erba bruciata. Daniel gli venne vicino e lui lo cinse con un braccio. "Voglio un lasciapassare. Per le Terre dell'Autunno" disse. "Per me e il mio famiglio".
Ser Rospo scoppiò a ridere, ma a un cenno della capra si zittì. "E perché lo vuoi?" chiese quella.
Hurt si strinse nelle spalle, fingendo noncuranza. "Ho delle cose da fare laggiù. Di che genere sono affari miei. Ed è sempre più difficile trovare delle Soglie, coi tempi che corrono".
La capra sorrise e indicò con un cenno il Cerchio delle Fate. "Quella è una Soglia, mio signore" disse. "Noi conosciamo il suo Vero Nome e possiamo attivarla. Ma tu cosa ci offrirai in cambio?"
Hurt rispose al suo sorriso, simulando una sicurezza che non aveva. "Una oblazione" disse. "Una volta che sarò tornato da Faerie mi impegno a rimanere in Irlanda per una settimana ancora. Così, tutte le mattine, potrò offrirvi del pane fresco e una ciotola di latte".
Messer Tasso si sgranchì le gambe, inquieto. Ser Rospo aprì bocca come volesse dire qualcosa, ma fu Capra di Montagna a parlare per prima.
"E noi dovremmo accontentarci di così poco?"  chiese.
Gli altri le gettarono un'occhiata preoccupata. Erano decenni che gli uomini ignoravano gli Antichi, e a causa di questo i pochi del Popolo si erano fatti sempre più deboli e affamati.
"Cos'altro vuoi?" chiese Hurt.
"Qualcosa che non si trovi facilmente" rispose la capra, con sul muso un'espressione di astuzia animale.
Hurt si chiese cosa avrebbe potuto darle. Se conosceva le regole, doveva essere qualcosa di importante per lui e di bello per loro. Si passò una mano a massaggiarsi il collo, e all'improvviso gli venne un'idea: slacciò il crocefisso di suo nonno e lo sventagliò sotto i loro occhi.
"È... è oro?" chiese la capra, con la bava che le colava fin sulla barbetta.
"Purissimo" mentì il detective. "Potrete scambiarla con un leprecauno e ottenere tutti i favori che volete. Oppure tenerla per voi, la cosa non mi riguarda. È una scelta vostra".
I tre si scambiarono un’occhiata.
"Accettiamo" urlò Ser Rospo a nome di tutti, e saltò a strappargli la catenina. Hurt non oppose resistenza.
Il ranocchio passò la collana alla capra, che la avvicinò al muso e socchiuse un occhio per studiarla meglio. Soddisfatta, indicò col bastone il centro del Cerchio. "Alueth" disse, pronunciandone il Vero Nome. Un soffio di vento increspò le ciocche d'erba all'interno del circolo, ma a parte questo non accadde nulla.
"Il passaggio è libero" disse Capra. "Avete fino alla prossima luna per tornare, prima che si richiuda".
"Oh, non fa niente" disse Hurt alzandosi. "Quando usciremo sarà Oberon in persona a scortarci".
La capra lo guardò divertita, e: "Come farai anche solo a parlarci, con Oberon?" chiese.
Il detective le strizzò l'occhio e si dette una pacca sulla giacca. "Ho un talismano" disse.

Hurt mise entrambi i piedi nel Cerchio. Aspettò che Daniel lo seguisse ed entrasse nella Soglia; poi, semplicemente, ne uscì.
La nuvola che copriva il Sole passò, illuminando la radura. Ogni cosa nel Paese delle Fate era inondata di una luce che sembrava provenire da tutte le direzioni nello stesso momento. Ogni oggetto risplendeva e nulla proiettava un’ombra. L'effetto per gli occhi era fastidioso, ma presto ci si abituò.
"Questo posto è stato fatto con la magia" sentenziò Daniel, annusando l'aria.
"Questo posto è la magia" lo corresse Hurt. "Siamo nelle Terre dell'Autunno, dove non scende mai il crepuscolo".
Superarono i cespugli e si accorsero di non essere più in montagna, ma nel mezzo di una pianura immensa di cui non riuscivano a scorgere gli orizzonti. Eppure l'erba era curata, tagliata tutta alla stessa altezza, come se ci fosse stato un esercito di giardinieri sempre pronto a occuparsene.
Hurt si chinò su Daniel e gli parlò all'orecchio.
"In questo mondo ci sono regole da seguire, Daniel" lo avvertì. "E le regole sono questo mondo. Prima di tutto, non lasciare mai il sentiero. Secondo, non rivelare mai a nessuno il tuo nome". Lo guardò negli occhi per essere certo che avesse capito, poi si rialzò. Daniel credeva che sarebbe andato avanti a parlare, invece rimasero in silenzio, a studiare il paesaggio.
Il detective guardò attentamente alla sua sinistra e poi alla sua destra, e infine decise per quest'ultima, la via dell’est. Si incamminò lungo la strada facendo segno a Daniel di stargli vicino. Il cane scodinzolò e come sempre gli corse dietro.



CONTINUA TRA SETTE GIORNI!